Jasper Gwyn non si mosse dalla poltrona, quel giorno, e tanto si avvicinò a Rebecca che fu naturale finire dov’era lei, prima attraversando un torpore pieno di immagini, poi scivolando nel sonno, senza opporre resistenza, abbandonato nella poltrona. L’ultima cosa che sentì fu la voce della signora con il foulard impermeabile. Bel modo di lavorare, diceva.
Ma invece parve normale a Rebecca, quando riaprì gli occhi – qualcosa che doveva accadere. Lo scrittore addormentato. Che strana dolcezza. Silenziosamente scese dal letto. Le otto erano passate. Prima di rivestirsi si avvicinò a Jasper Gwyn e rimase a guardarlo – quest’uomo, pensò. Gli girò intorno, e poiché lui aveva un gomito appoggiato sul bracciolo, la mano abbandonata nel vuoto, avvicinò i suoi fianchi a quella mano, fino quasi a sfiorarla, e rimase per un attimo immobile – le dita di quest’uomo e il mio sesso, pensò. Si rivestì senza far rumore. Uscì che lui ancora dormiva.
Come ogni sera, fece i primi passi per strada con un’incertezza da animale appena nato.
Tornò a casa e c’era un ragazzo.
– Ciao, Rebecca, disse.
– Ti ho detto di avvertirmi, quando torni qui. Ma senza nemmeno togliersi il cappotto lo baciò. Dopo, la notte, Rebecca gli disse che faceva un nuovo lavoro. Poso per un pittore, disse.
– Tu?
– Sì, io. Lui rise.
– Nuda, lei disse.
– Dai.
– Non è male come lavoro. Tutti i giorni, quattro ore al giorno.
– Che palle, chi te l’ha fatto fare?
– Soldi. Mi dà cinquemila sterline. La dobbiamo pagare, in qualche modo, questa casa. Ci pensi tu?
Il ragazzo faceva il fotografo, ma non sembrava esserci molta gente disposta a crederci. Così a tutto pensava Rebecca, l’affitto, le bollette, la roba in frigo. Lui ogni tanto spariva, poi tornava. Le sue cose erano lì. Rebecca era solita riassumere la situazione in termini molto elementari. Mi sono innamorata di uno stronzo, diceva.
Un paio di mesi prima, lui le aveva detto che un suo amico voleva farle delle fotografie. Combinarono di vedersi una sera, lì a casa sua. Bevvero molto e alla fine Rebecca si ritrovò nuda sul letto, con quell’amico che scattava. Non le importava. A un certo punto il suo ragazzo stronzo si era spogliato e le era andato vicino. Avevano iniziato a fare l’amore. L’amico intanto scattava. Poi, per qualche giorno, Rebecca non aveva più voluto vedere il suo ragazzo stronzo. Ma nemmeno allora aveva smesso di amarlo.
Lei sapeva, d’altronde, che il suo corpo l’avrebbe sempre destinata ad amori assurdi. Nessun uomo pensa di desiderare un corpo come quello. Ma l’esperienza aveva insegnato a Rebecca che molti invece lo desiderano ed è spesso il risultato di una qualche ferita che non vogliono ammettere. Spesso hanno paura del corpo femminile, senza saperlo. Alcune volle hanno bisogno di disprezzare per eccitarsi, e allora possedere quel corpo li fa sentire bene. Quasi sempre c’era una sorta di attesa di perversione in circolo, come se scegliere quella bellezza anomala comportasse necessariamente l’abbandono dei modi più semplici e rettilinei del desiderio. Così, a ventisette anni, Rebecca aveva già un mucchio di ricordi sbagliati, dove a stento avrebbe potuto ritrovare la dolcezza semplice di un momento pulito. Non le importava. Non c’era nulla che si potesse fare, a riguardo.
Perciò rimaneva con il suo ragazzo stronzo. Perciò non si era stupita quando Jasper Gwyn le aveva fatto quella proposta. Era esattamente il genere di cose che aveva imparato ad aspettarsi dalla vita.
La mattina lasciò il ragazzo stronzo addormentato nel letto, e se ne uscì senza neanche farsi la doccia. Aveva una notte di sesso addosso, e le piacque portarsela dietro, tutta intera. Oggi mi prendi così, caro Jasper Gwyn, vediamo che effetto ti fa.
Per quattro ore, al mattino, andava ancora a lavorare da Tom. Aveva una venerazione per quell’uomo. Da quando, tre anni prima, un incidente d’auto l’aveva costretto su una sedia a rotelle, si era costruito intorno un ufficio enorme, una specie di paese, dove lui era Dio. Si era circondato di lavoranti di tutti i tipi, alcuni vecchissimi, altri completamente pazzi. Lui stava attaccato al telefono tutto il tempo. Pagava poco e di rado, ma questo era un dettaglio. Aveva una tale energia, e generava così tanta vita intorno, che la gente finiva per adorarlo. Era uno di quelli che se per caso ti capita di crepare lo prendono come uno sgarbo personale.
Sulla faccenda del ritratto non le aveva mai detto niente. Solo una volta, quando era già qualche giorno che Rebecca il pomeriggio andava da Jasper Gwyn, lui le era passato vicino con la sua sedia a rotelle e inchiodando davanti al suo tavolo aveva detto:
– Se ti chiedo qualcosa, mandami affanculo.
– D’accordo.
– Come si comporta il vecchio Jasper?
– Vada a fare in culo.
– Perfetto.
Così, all’una si alzava, prendeva la sua roba e passava a salutare Tom. Sapevano entrambi dove stava andando, ma facevano finta di niente. Ogni tanto lui dava giusto un’occhiata a come era vestita. Magari pensava di dedurne qualcosa, chissà.
Allo studio di Jasper Gwyn ci andava in metropolitana, ma sempre scendendo una fermata prima, per camminare un po’, prima di entrare. Per la strada, si rigirava in mano la chiave. E quello era il suo modo di iniziare a lavorare. Un’altra cosa che faceva era pensare in che ordine si sarebbe tolta i vestiti. Era strano, ma stando vicino a quell’uomo, tutti i santi giorni, si finiva per imparare una sorta di precisione nei gesti che lei non aveva mai immaginato necessaria. Ti portava a credere che non fosse tutto equivalente, e che qualcuno, da qualche parte, protocollasse ogni nostro fare – un giorno, facilmente, ce ne avrebbe chiesto conto.
Girava la chiave nella toppa, e entrava.
Non si rendeva subito conto se lui era già lì. Aveva imparato che non era importante. Tuttavia non si sentiva al sicuro fino a quando non lo vedeva – e tranquilla fino a quando lui non la guardava. Non l’avrebbe potuto immaginare, prima, ma proprio la cosa più assurda – che quell’uomo la fissasse -era divenuta la cosa di cui aveva bisogno, e senza la quale non ritrovava nulla di se stessa. Con sorpresa capì che si accorgeva di essere nuda solo quando era sola, o lui non la guardava. Invece le era naturale quando lui la fissava, e si sentiva vestita, allora, e compiuta, come un lavoro ben fatto. Col passare dei giorni si sorprese a desiderare che lui si avvicinasse e spesso la frustrava quel suo rimanersene appoggiato al muro, restio a prendersi quello che lei avrebbe concesso senza alcun fastidio. Allora poteva accadere che fosse lei ad avvicinarsi, ma non era semplice, si sarebbe dovuto essere capaci di evitare qualsiasi atteggiamento che sembrasse una seduzione – finiva per essere brusca, nel gesto, e inesatta. Era sempre lui a ritrovare una distanza indolore.
Il giorno in cui lei arrivò con la sua notte di sesso addosso, Jasper Gwyn non si fece vivo. Rebecca ebbe tempo di fare dei conti, erano passati diciotto giorni da quando avevano iniziato. Pensò che anche le lampadine appese al soffitto erano diciotto. Matto com’era, era perfino possibile che Jasper Gwyn attribuisse un qualche significato alla circostanza – magari era per quello che non era venuto. Si rivestì, alle otto in punto, e poi ci mise molto a tornare a casa – era come se aspettasse che prima le si restituisse qualcosa.
Anche il giorno dopo Jasper Gwyn non arrivò. Rebecca sentì le ore passare con una lentezza esasperante. Era sicura di vederlo comparire, ma non accadde, e quando si rivestì, alle otto precise, lo fece con rabbia. Per strada, camminando nella sera, pensò che era scema, e che quello era soltanto un lavoro, cosa gliene importava a lei – ma anche cercava di ricordare se aveva letto qualcosa di strano, in lui, l’ultima volta che si erano visti. Lo ricordava chino sui suoi foglietti, null’altro.
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