Alessandro Baricco - Mr Gwyn

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Jasper Gwyn, scrittore dal discreto successo, decide da un giorno all’altro che non ha più intenzione di scrivere. O perlomeno di scrivere romanzi. Il gesto dello scrivere però gli manca, sente il bisogno di continuare a mettere in fila le parole come aveva fatto per la maggior parte della sua vita. Diventare “copista” gli appare dunque la soluzione ideale: non di cifre o parole, bensì di persone. Inizia così a fare ritratti per, come dice lui, “riportare a casa le persone”. Adibisce un ex garage a studio di posa, lo illumina con lampadine dalla luce “infantile” e ciò che ne scaturisce è un qualcosa che solo un personaggio complesso e surreale come Jasper Gwyin poteva concepire. Non mancheranno gli imprevisti e più di una volta il fragile sogno su cui tutto è costruito rischierà di infrangersi. Il finale non può che sorprendere.

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Fu fortunato. Era chiuso per lavori di ristrutturazione.

Allora perse un po’ di tempo e per le dieci si presentò nel laboratorio del vecchietto di Camden Town, quello delle lampadine. Si erano messi d’accordo per telefono. Il vecchio prese in un angolo un vecchio scatolone di pasta italiana che aveva sigillato con un largo scotch verde e disse che era pronto. In taxi non volle mollarlo nel bagagliaio e per tutto il viaggio lo tenne sulle gambe. Dato che era una scatola piuttosto grande ma dal contenuto evidentemente leggero, c’era qualcosa di irreale nella agilità con cui scese dal taxi e salì i pochi gradini che portavano allo studio di Jasper Gwyn.

Quando entrò rimase per un attimo fermo, in piedi, senza mollare lo scatolone.

– Io qui ci sono già stato.

– Le piacciono le moto d’epoca?

– Non so neanche cosa siano.

Aprirono con cautela lo scatolone e tirarono fuori le diciotto Caterina de’ Medici. Erano confezionate una ad una in una morbidissima carta velina. Jasper Gwyn portò la scala che aveva comprato da un indiano dietro l’angolo e poi si tolse di mezzo. Il vecchio ci mise un tempo irragionevole, a furia di spostare la scala, e salire, e scendere, ma alla fine ottenne l’effetto sperato di diciotto Caterina de’ Medici installate in diciotto portalampada pendenti dal soffitto in geometrica disposizione. Anche spente facevano la loro bella figura.

– Accende lei?, chiese Jasper Gwyn, dopo aver accostato gli scuri alle finestre.

– Sì, è meglio, rispose il vecchio, come se un’inesatta pressione sull’interruttore avesse la possibilità di compromettere tutto. Probabilmente, nella sua mente malata di artigiano, l’aveva.

Si avvicinò al pannello elettrico, e con lo sguardo fisso alle sue lampadine premette l’interruttore. Rimasero un po’ in silenzio.

– Le ho detto che le volevo rosse?, chiese smarrito Jasper Gwyn.

– Zitto.

Per una qualche ragione che Jasper Gwyn non era in grado di capire, le lampadine, che si erano accese di un colore rosso brillante trasformando lo studio in un bordello, lentamente scolorarono fino ad attestarsi su una nuance tra l’ambra e l’azzurro che non si sarebbe potuto definire in altri termini che infantile.

Il vecchio borbottò qualcosa, soddisfatto.

– Incredibile, disse Jasper Gwyn. Era sinceramente commosso.

Prima di uscire, accese l’impianto che gli aveva preparato David Barber e nello stanzone incominciò a defluire una corrente di suoni che apparentemente trascinava, con prodigiosa lentezza, mucchi di foglie secche e nebbiose armonie di strumenti a fiato da bambini. Jasper Gwyn diede un’ultima occhiata intorno. Era tutto pronto.

– Non per farmi i fatti suoi, ma cosa ci fa qui dentro?, chiese il vecchio.

– Lavoro. Faccio il copista.

Il vecchio assentì col capo. Stava registrando come nella stanza non ci fosse alcuna scrivania e, invece, comparissero un letto e due poltrone. Ma sapeva che qualsiasi artigiano ha il suo stile particolare.

– Lo conoscevo, una volta, uno che faceva il copista, disse soltanto.

Non approfondirono.

Mangiarono insieme, in un pub dall’altra parte della strada. Quando si salutarono, con dignitoso calore, erano le tre meno un quarto. Mancava poco più di un’ora all’arrivo di Rebecca, e Jasper Gwyn si accinse a fare quello che, nel dettaglio, aveva già da giorni programmato di fare.

26.

Andò verso la metropolitana, prese la linea Bakerloo, scese a Charing Cross, e per un paio d’ore visitò alcune librerie dell’usato cercando, senza trovarlo, un manuale sull’uso degli inchiostri. Accidentalmente comprò una biografia di Rebecca West e rubò, nascondendosela in tasca, un’antologia di haiku del diciottesimo secolo. Verso le cinque entrò in un caffè perché aveva bisogno del bagno. Al tavolo, bevendo un whisky, sfogliò l’antologia di haiku chiedendosi per l’ennesima volta che testa bisognava avere per inseguire un tipo di bellezza come quello. Quando si accorse che erano già le sei, uscì per andare in un piccolo supermercato biologico nelle vicinanze, e lì si comprò quattro cose per la cena. Poi si diresse alla più vicina fermata della metropolitana, attardandosi un po’ a visitare una laundry che trovò sul proprio cammino: da tempo coltivava l’idea di fare una guida dei cento migliori posti dove lavarsi la biancheria a Londra, quindi non perdeva occasione di aggiornarsi. Arrivò a casa che erano le sette e venti. Fece una doccia, mise su un disco di Billie Holiday e si cucinò la cena, riscaldando a fuoco lento una crema di lenticchie che poi seppellì sotto il parmigiano grattugiato. Finito di mangiare, lasciò la tavola apparecchiata e si distese sul divano, scegliendo i tre libri a cui avrebbe dedicato la serata. Erano un romanzo di Bolano, l’integrale delle storie di Carl Barks con Donald Duck e il Discorso sul metodo di Cartesio. Almeno due su tre avevano cambiato il mondo. Il terzo l’aveva quanto meno rispettato. Alle nove e un quarto squillò il telefono. Di solito Jasper Gwyn non rispondeva, ma quello era un giorno speciale.

– Pronto?

– Pronto, sono Rebecca.

– Buonasera Rebecca.

Scivolò via un lungo istante di silenzio.

– Mi scusi se la disturbo. Volevo solo dire che io sono andata, oggi, nello studio.

– Ne ero sicuro.

– Perché mi era venuto il dubbio di aver sbagliato giorno.

– No, no, era proprio oggi.

– Allora bene, posso andare a letto tranquilla.

– Sicuramente.

Passò un altro refolo di silenzio.

– Sono andata e ho fatto quello che mi ha detto.

– Benissimo. Non le ha spente le luci, vero?

– No, ho lasciato tutto com’era.

– Perfetto. Allora a domani.

– Sì.

– Buonanotte Rebecca.

– Buonanotte. E scusi se l’ho disturbata.

Jasper Gwyn tornò a leggere. Era nel bel mezzo di una storia fantastica. Donald Duck faceva il piazzista ed era stato spedito nella zona più selvaggia dell’Alaska. Scalava montagne e discendeva fiumi portandosi sempre dietro un campione della merce che doveva vendere. La cosa bella era il tipo di merce che doveva vendere: organi a canne.

Poi passò a Cartesio.

27.

Ma il giorno dopo era già lì quando Rebecca arrivò.

Si era seduto per terra, appoggiato alla parete. Nello studio scorreva il loop di David Barber. Un fiume lento.

Rebecca salutò con un sorriso prudente. Jasper Gwyn fece un cenno col capo. Si era messo una giacca leggera e aveva scelto per l’occasione delle scarpe in cuoio, allacciate, marrone chiaro. Davano un’impressione di serietà. Di lavoro.

Quando Rebecca iniziò a svestirsi lui si alzò a sistemare meglio gli scuri, a una finestra, più che altro perché gli pareva inelegante starsene lì a guardare. Lei lasciò i vestiti su una delle poltrone. L’ultima cosa che si tolse fu una t-shirt nera. Sotto non portava niente. Si andò a sedere sul letto. Molto bianca la pelle, un tatuaggio alla base della schiena.

Jasper Gwyn tornò a sedersi per terra, dov’era prima, e iniziò a guardare. Lo sorpresero i seni piccoli, e i nei segreti, ma non era sui dettagli che gli venne da fermarsi – era più urgente capire l’insieme, ricondurre a una qualche unità quella figura che sembrava, per ragioni da chiarire, non avere alcuna coerenza. Pensò che senza vestiti dava l’impressione di una figura casuale. Perse quasi subito la nozione del tempo, e gli fu naturale il gesto semplice dell’osservare. Ogni tanto abbassava lo sguardo, come un altro sarebbe riemerso in superficie, a respirare.

Per molto tempo Rebecca rimase seduta sul letto. Poi Jasper Gwyn la vide alzarsi e misurare lenta la stanza, a piccoli passi. Teneva gli occhi sul pavimento, e cercava punti immaginari dove appoggiare i piedi, che aveva da bambina. Si muoveva come raccogliendo ogni volta pezzi di se stessa che non erano destinati a rimanere insieme. Il suo corpo sembrava il risultato di uno sforzo di volontà.

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