È perfetto, pensò.
Per questo si ritrovò davanti al vecchietto, a Camden Town.
– No, dovrebbero morire e basta, senza agonizzare e senza fare rumore, possibilmente.
Il vecchietto fece uno di quei gesti indecifrabili che fanno gli artigiani per vendicarsi del mondo. Poi spiegò che le lampadine non erano creature facili, risentivano di un sacco di variabili, e avevano spesso una loro forma di imprevedibile follia.
– Di solito, aggiunse, il cliente a questo punto dice: Come le donne. Me la risparmi, per favore.
– Come i bambini, disse Jasper Gwyn.
Il vecchietto assentì col capo. Come tutti gli artigiani parlava solo lavorando, e nel suo caso questo significava tenere tra le dita delle piccole lampadine, quasi fossero state delle uova, e immergerle in una soluzione opaca, dal vago aspetto di distillato. Lo scopo dell’operazione era palesemente imperscrutabile. Le asciugava poi con un phon vecchio come lui.
Persero molto tempo a divagare sulla natura delle lampadine, e Jasper Gwyn finì per scoprire un universo di cui non aveva mai sospettato l’esistenza. Gli piacque particolarmente venire a sapere che le forme delle lampadine sono infinite, ma sedici sono quelle principali, e per ognuna c’è un nome. Per un’elegante convenzione, sono tutti nomi di regine o principesse. Jasper Gwyn scelse le Caterina de’ Medici, perché sembravano lacrime sfuggite a un lampadario.
– Trentadue giorni?, chiese il vecchietto quando decise che quell’uomo si meritava il suo lavoro.
– Quella sarebbe l’idea.
– Bisognerebbe sapere quante volte le spegne e le accende.
– Una volta, rispose impeccabile Jasper Gwyn.
– Come lo sa?
– Lo so.
Il vecchio si fermò e alzò lo sguardo verso Jasper Gwyn.
Lo fissò, per così dire, nel filamento degli occhi. Cercò qualcosa che non trovò. Una crepa. Allora riabbassò lo sguardo sul suo lavoro e fece ripartire le mani.
– Bisognerà avere molta cura a trasportarle e a montarle, disse. Lei sa tenere in mano una lampadina?
– Non me lo sono mai chiesto, rispose Jasper Gwyn.
Il vecchietto gliene porse una. Era una Elisaveta Romanov. Jasper Gwyn la strinse con cautela nel palmo della mano. Il vecchietto fece una smorfia.
– Usi le dita. Così l’ammazza. Jasper Gwyn ubbidì.
– Innesto a baionetta, sentenziò il vecchietto scuotendo la testa, se le do quelle a vite capace che me le fa fuori prima ancora di accenderle. E si riprese la sua Elisaveta Romanov.
Rimasero d’accordo che nove giorni dopo il vecchietto avrebbe consegnato a Jasper Gwyn diciotto Caterina de’ Medici destinate a spegnersi in un arco di tempo che sarebbe variato tra le settecentosessanta e le ottocentotrenta ore. Si sarebbero spente senza agonizzare in inutili lampi, e silenziosamente. Lo avrebbero fatto a una a una, secondo un ordine che nessuno avrebbe potuto prevedere.
– Ci siamo dimenticati di parlare del tipo di luce, disse Jasper Gwyn quando già stava per uscirsene.
– Come la vuole?
– Infantile.
– D’accordo.
Si salutarono stringendosi la mano, e Jasper Gwyn si accorse di farlo con cautela, come tanti anni prima era solito fare con i pianisti.
Bello, disse la signora con il foulard impermeabile. Mise ad asciugare l’ombrello su un radiatore e se ne andò un po’ intorno a guardare da vicino i particolari. La scarpiera, i tappeti dai colori caldi, le macchie di umidità sui muri e quelle di olio sul pavimento. Andò a controllare che il letto non fosse troppo molle, e provò le poltrone. Bello, disse.
In piedi, in un angolo del suo nuovo studio, il cappotto ancora addosso, Jasper Gwyn guardava quello che aveva messo su in un mese e mezzo, dal nulla e inseguendo un’idea insensata. Non trovò errori, e pensò che ogni cosa era stata fatta con attenzione e misura. Allo stesso modo un copista avrebbe potuto disporre carta e penna sul tavolo, infilarsi le mezze maniche di tela, scegliere l’inchiostro, sicuro di riconoscere la più appropriata sfumatura di blu. Pensò che non si era sbagliato: era un mestiere magnifico. Per un attimo lo sfiorò l’idea di una targa in ferro arrugginito, alla porta. Jasper Gwyn. Copista.
– E sorprendente quanto tutto ciò sia inutile in assenza di un qualsiasi modello, osservò la signora con il foulard impermeabile. O sono io che non l’ho visto?, aggiunse guardandosi intorno con l’aria di uno che cercava il reparto salse in un supermercato.
– No, niente modello, per ora, disse Jasper Gwyn.
– Immagino che non ci sia proprio la coda fuori dalla porta.
– Non ancora.
– Ha in mente come risolverla, o prevede di rimandare la cosa finché le scade il contratto d’affitto?
Ogni tanto alla vecchia signora tornavano su i toni da maestra di scuola. Quel modo burbero di avere a cuore le cose.
– No, un piano ce l’ho, rispose Jasper Gwyn.
– Sentiamolo.
Jasper Gwyn ci aveva pensato a lungo. Era evidente che avrebbe dovuto ingaggiare qualcuno, la prima volta, per mettersi alla prova. Bisognava però scegliere bene, perché un modello troppo difficile avrebbe potuto scoraggiarlo inutilmente, e uno troppo facile non lo avrebbe spinto a trovare quello che cercava. Non era neanche semplice intuire quale potesse essere il grado di estraneità giusto per quel primo esperimento. Un amico, per dire, gli avrebbe facilitato molto il compito, ma avrebbe falsato l’esperimento, perché troppe cose già avrebbe saputo di lui, e non sarebbe stato possibile guardarlo come un paesaggio mai visto. D’altra parte scegliere un perfetto estraneo, come la logica avrebbe suggerito, implicava tutta una serie di imbarazzi che Jasper Gwyn si sarebbe volentieri risparmiato, almeno quella prima volta. A parte la difficoltà di spiegare la cosa, di intendersi sul tipo di lavoro da fare insieme, c’era poi quella questione della nudità – spinosa. Istintivamente, era sembrato a Jasper Gwyn che la nudità del modello fosse una condizione imprescindibile. La immaginava come una specie di frustata necessaria. Avrebbe spostato tutto al di là di un certo confine, e senza quella scomoda dislocazione sentiva che non si sarebbe aperto nessun campo aperto, nessuna prospettiva infinita. Dunque bisognava rassegnarsi. Il modello doveva essere nudo. Ma Jasper Gwyn era un tipo riservato, e apprezzava la timidezza. Non aveva dimestichezza con i corpi e nella sua vita aveva lavorato solo con suoni e pensieri. La meccanica di un pianoforte era ciò che di più fisico avesse avuto modo di dominare. Se pensava a un modello nudo, davanti a lui, quel che provava era solo un imbarazzo profondo e uno smarrimento inevitabile. Per questo la scelta del primo modello era delicata, e incauta l’ipotesi di scegliere un perfetto estraneo.
Alla fine, tanto per semplificare un po’ le cose, Jasper Gwyn aveva deciso di escludere l’ipotesi di un maschio. Non ce la poteva fare. Non era questione di omofobia, ma di semplice desuetudine. Non era il caso di complicarsi troppo la vita, in quel primo esperimento: imparare a guardare un corpo maschile era una cosa che, per il momento, preferiva rinviare. Una donna sarebbe stata senz’altro meglio, non si sarebbe trovato a partire proprio da zero. La scelta di una donna, però, aveva delle implicazioni di cui Jasper Gwyn si rendeva perfettamente conto. Lì si aggiungeva la variabile del desiderio. Gli sarebbe piaciuto iniziare con un corpo che fosse bello scoprire, guardare, spiare. Ma era chiaro che fare un ritratto era un gesto da tenere al riparo dal desiderio puro e semplice, o, tutt’al più, doveva prendere avvio da quel desiderio e poi lasciarlo, in qualche modo, decadere. Doveva essere una questione di intimità distanti, fare un ritratto. Dunque troppa bellezza sarebbe stata fuori luogo. Troppa poca, d’altra parte, sarebbe stata un’inutile afflizione. Quel che cercava Jasper Gwyn era una donna che sarebbe stato bello guardare, ma non così tanto da finire per desiderarla.
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