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Alessandro Baricco: Mr Gwyn

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Alessandro Baricco Mr Gwyn

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Jasper Gwyn, scrittore dal discreto successo, decide da un giorno all’altro che non ha più intenzione di scrivere. O perlomeno di scrivere romanzi. Il gesto dello scrivere però gli manca, sente il bisogno di continuare a mettere in fila le parole come aveva fatto per la maggior parte della sua vita. Diventare “copista” gli appare dunque la soluzione ideale: non di cifre o parole, bensì di persone. Inizia così a fare ritratti per, come dice lui, “riportare a casa le persone”. Adibisce un ex garage a studio di posa, lo illumina con lampadine dalla luce “infantile” e ciò che ne scaturisce è un qualcosa che solo un personaggio complesso e surreale come Jasper Gwyin poteva concepire. Non mancheranno gli imprevisti e più di una volta il fragile sogno su cui tutto è costruito rischierà di infrangersi. Il finale non può che sorprendere.

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Jasper Gwyn disse che per un po’ aveva scritto libri.

John Septimus Hill soppesò la risposta, come se aspettasse di scoprire se poteva capirla senza mettere troppo disordine nelle proprie convinzioni.

17.

Dieci giorni dopo John Septimus Hill portò Jasper Gwyn in un fabbricato basso, al fondo di un giardino, dietro a Marylebone High Street. Per anni era stato il magazzino di un falegname. Poi, in rapida successione, ne avevano fatto il deposito di una galleria d’arte, la sede di una rivista di viaggi e il garage di un collezionista di moto d’epoca. Jasper Gwyn lo trovò perfetto. Apprezzò molto le indelebili macchie di olio lasciate dalle moto sul pavimento di legno e i lembi dei manifesti di mari caraibici che nessuno si era preso la briga di staccare dai muri. C’era un piccolo bagno sul tetto, ci si arrivava con una scala di ferro. Non c’era traccia di cucina. Le grandi finestre potevano essere oscurate da massicci scuri in legno, appena rifatti e non ancora laccati. Alla grande stanza si accedeva da una porta a due battenti che dava sul giardino. C’erano anche le tubature a vista, e non erano messe niente bene. John Septimus Hill annotò, con tono professionale, che per le macchie di umidità non sarebbe stato difficile trovare una soluzione.

– Benché sia la prima volta, annotò senza ironia, che l’umidità mi viene presentata come un’auspicabile decorazione, invece che una iattura.

Fissarono il prezzo di affitto, e Jasper Gwyn si impegnò per sei mesi, riservandosi di rinnovare il contratto per altri sei. La cifra era considerevole, e questo lo aiutò a capire che se mai era stata un gioco, quella storia del ritratto, adesso non lo era più.

– Bene, le pratiche burocratiche le metterà a punto con mio figlio, disse John Septimus Hill al momento del commiato. Erano per strada, davanti a una stazione della metropolitana. Non la prenda come una osservazione dovuta, aggiunse, ma è stato un vero piacere avere a che fare con lei.

Jasper Gwyn era negato per gli addii, anche nelle loro forme più leggere, tipo il commiato da un broker immobiliare che gli aveva appena trovato un ex garage dove tentare di scrivere ritratti. Ma anche provava una certa simpatia per quell’uomo, sincera, e gli sarebbe piaciuto saperla esprimere. Così, invece di dire qualcosa di genericamente gentile, mormorò una frase che stupì anche lui.

– Ma non ho sempre scritto libri, disse, prima facevo un nitro mestiere. L’ho fatto per nove anni.

– Davvero?

– Facevo l’accordatore. Accordavo pianoforti. Lo stesso mestiere di mio padre.

John Septimus Hill accolse la notizia con evidente soddisfazione.

– Ecco, adesso credo di capire meglio. La ringrazio.

Poi disse che c’era una cosa che si era sempre chiesto, a proposito degli accordatori.

– Mi son sempre domandato se sanno suonare il pianoforte. In modo professionale, intendo dire.

– Di rado, rispose Jasper Gwyn. E comunque, proseguì, se la domanda che ha in testa è come mai, dopo aver lavoralo per ore, alla fine non si seggono lì a suonare una Polacca di Chopin per gustarsi il risultato della loro dedizione e del loro sapere, la risposta è che, anche se fossero in grado di farlo, non lo farebbero mai.

– No?

– Chi accorda pianoforti, non ama scordarli, spiegò Jasper Gwyn.

Si lasciarono promettendosi di rivedersi.

Giorni dopo Jasper Gwyn si ritrovò seduto per terra in un angolo di un ex garage che adesso era il suo studio di ritrattista. Si rigirava in mano le chiavi, e si studiava le distanze, la luce, i dettagli. C’era un gran silenzio, rotto solo dal gorgoglio episodico delle tubature dell’acqua. Rimase lì per un sacco di tempo, analizzando le prossime mosse da fare. Qualcosa si sarebbe pur dovuto mettere – un letto, forse, delle poltrone. Pensò a come illuminare, e a dove sarebbe stato lui. Cercò di immaginarsi lì, in silenziosa compagnia di uno sconosciuto, abbandonati entrambi in un tempo di cui dovevano imparare tutto. Sentiva già la morsa di un imbarazzo ingovernabile.

– Non ce la farò mai, disse a un certo punto.

– Ma si figuri un po’, disse la signora con il foulard impermeabile. Si beva prima un whisky, se proprio non se la sente.

– Potrebbe non bastare.

– Doppio whisky, allora.

– Lei la fa facile.

– Cos’è, ha paura?

– Sì.

– Bene. Se non c’è paura non si combina niente di buono. E per le macchie di umidità?

– Pare che ci sia solo da aspettare. I tubi del riscaldamento fanno schifo.

– Lei mi tranquillizza.

Il giorno dopo Jasper Gwyn decise di occuparsi della musica. Tutto quel silenzio lo aveva impressionato, ed era giunto alla conclusione che si dovesse foderare quella stanza con una qualche forma di suono. I gorgoglìi dei tubi andavano anche bene, ma era indubbio che si potesse fare di meglio.

18.

Di compositori ne aveva conosciuti tanti, negli anni in cui accordava pianoforti, ma quello che gli venne in mente fu David Barber. La cosa aveva una sua logica: Jasper Gwyn ricordava distintamente una sua composizione per clarinetto, ventilatore e tubi idraulici. Non era neanche tanto male. I tubi gorgogliavano un sacco.

Per anni si erano persi di vista, ma quando a Jasper Gwyn era accaduto di raggiungere una certa notorietà David Barber l’aveva cercato per proporgli di scrivere il testo di una sua Cantata. Non se n’era fatto niente (era una cantata per voce registrata, sifone da seltz e orchestra d’archi), ma i due erano rimasti in contatto. David era un tipo simpatico, aveva l’hobby della caccia, e viveva circondato da cani a cui dava solo nomi di pianisti, cosa che consentiva a Jasper Gwyn di affermare, senza mentire, che una volta era stato morso da Radu Lupu. Come compositore si era a lungo divertito frequentando l’ala più festiva delle avanguardie newyorkesi: non si facevano molti soldi, ma il successo con le donne era assicurato. Poi per un lungo periodo era scomparso, seguendo certe sue idee esoteriche sui rapporti tonali e insegnando quel che gli sembrava di averne capito in certi circoli parauniversitari. L’ultima volta che Jasper Gwyn aveva sentito parlare di lui era stato quando, sui giornali, aveva letto di una sua sinfonia eseguita, irritualmente, all’Old Trafford, il celeberrimo stadio di Manchester. Il titolo della composizione, lunga novanta minuti, era Semifinal.

Senza troppo sforzo trovò il suo indirizzo, e si presentò una mattina davanti a casa sua, nel quartiere di Fulham. David Barber aprì la porta e quando lo vide lo abbracciò senza tentennamenti, come se lo stesse aspettando. Poi andarono insieme al parco, a portare Martha Argerich a cagare. Era uno spinone vandeano.

19.

Con David non era il caso di fare troppi giri di parole e quindi Jasper Gwyn disse semplicemente che gli serviva qualcosa per sonorizzare il suo nuovo studio. Disse che non era capace di lavorare nel silenzio.

– Mai pensato a dei bei dischi?, chiese David Barber.

– Quella è musica. Io vorrei dei suoni.

– Suoni o rumori?

– Una volta non pensavi che ci fosse differenza.

Andarono avanti a parlare, camminando nel parco, mentre Martha Argerich inseguiva scoiattoli. Jasper Gwyn disse che quel che si immaginava era un loop lunghissimo e appena percepibile che foderasse giusto il silenzio, ammortizzandolo.

– Lunghissimo quanto?, chiese David Barber.

– Non so. Una cinquantina di ore? David Barber si fermò. Rise.

– Be’, non è esattamente uno scherzetto. Ti verrà a costare una certa cifra, amico.

Poi disse che voleva vedere il posto. E pensarci un po’, seduto lì. Così decisero di andare insieme allo studio dietro Marylebone High Street, il mattino dopo. Passarono il resto del tempo a ricordare i tempi andati, e a un certo punto David Barber disse che per un po’, anni prima, si era convinto che Jasper andasse a letto con la sua fidanzata di allora. Era una specie di fotografa svedese. No, è lei che andava a letto con me, disse Jasper Gwyn, io non ci capivo niente. Ci risero su.

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