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Alessandro Baricco: Mr Gwyn

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Alessandro Baricco Mr Gwyn

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Jasper Gwyn, scrittore dal discreto successo, decide da un giorno all’altro che non ha più intenzione di scrivere. O perlomeno di scrivere romanzi. Il gesto dello scrivere però gli manca, sente il bisogno di continuare a mettere in fila le parole come aveva fatto per la maggior parte della sua vita. Diventare “copista” gli appare dunque la soluzione ideale: non di cifre o parole, bensì di persone. Inizia così a fare ritratti per, come dice lui, “riportare a casa le persone”. Adibisce un ex garage a studio di posa, lo illumina con lampadine dalla luce “infantile” e ciò che ne scaturisce è un qualcosa che solo un personaggio complesso e surreale come Jasper Gwyin poteva concepire. Non mancheranno gli imprevisti e più di una volta il fragile sogno su cui tutto è costruito rischierà di infrangersi. Il finale non può che sorprendere.

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L’indomani David Barber arrivò su una famigliare tutta scassata che sapeva di cane bagnato da lontano. Posteggiò davanti all’idrante, perché era il suo personale modo di contestare la gestione governativa dei fondi culturali. Entrarono nello studio e si chiusero la porta alle spalle. C’era un gran bel silenzio, a parte i tubi gorgoglianti, naturalmente.

– Bello, disse David Barber.

– Sì.

– Dovresti stare attento a quelle macchie di umidità.

– E tutto sotto controllo.

David Barber andò un po’ in giro per la stanza, e prese le misure di quel silenzio particolare. Ascoltò con attenzione i tubi, e valutò lo scricchiolio del pavimento di legno.

– Forse bisognerebbe anche sapere che tipo di libro stai scrivendo, disse a un certo punto.

Jasper Gwyn ebbe un momento di sconforto. Non si era ancora abituato all’idea che ci avrebbe messo una vita a convincere il mondo che non scriveva più. Era un fenomeno incredibile. Una volta un editor incontrato per strada si era caldamente complimentato con lui per il suo articolo sul “Guardian”. Poi subito dopo gli aveva chiesto: Cosa stai scrivendo adesso? Erano cose che Jasper Gwyn non era in grado di capire.

– Credimi, cosa io stia scrivendo non ha importanza, disse.

E spiegò che quel che gli sarebbe piaciuto era un fondale sonoro in grado di mutare come la luce durante il giorno, e quindi in maniera impercettibile e continua. Soprattutto: elegante. Questo era molto importante. Aggiunse anche che avrebbe voluto qualcosa in cui non c’era ombra di ritmo, ma solo un divenire che sospendesse il tempo, e semplicemente riempisse il vuoto di un trascorrere privo di coordinate. Disse che gli sarebbe piaciuto qualcosa di immobile come un volto che invecchia.

– Dov’è il cesso?, chiese David Barber. Quando tornò disse che accettava.

– Diecimila sterline più l’impianto di diffusione. Diciamo ventimila sterline.

A Jasper Gwyn piaceva pensare che stava bruciando tutti i suoi risparmi nell’azzardo di un mestiere che non sapeva neanche se esistesse. Voleva in qualche modo mettersi spalle al muro perché sapeva che solo in quel modo avrebbe avuto una chance di trovare, in se stesso, quello che cercava. Dunque accettò.

Un mese dopo David Barber venne a installare il sistema di diffusione e poi lasciò a Jasper Gwyn un hard disk.

– Goditelo. Sono sessantadue ore, mi è venuto un po’ lungo. Non trovavo il finale.

Quella notte Jasper Gwyn si sdraiò per terra, nel suo studio di copista, e fece partire il loop. Iniziava con quello che sembrava un rumore di foglie e andava avanti, muovendosi impercettibilmente, e trovando come per caso suoni di ogni tipo. A Jasper Gwyn vennero le lacrime agli occhi.

20.

Nel mese in cui aveva aspettato la musica di David Barber, o quel che era, Jasper Gwyn si era dato da fare per mettere a punto tutti gli altri particolari. Aveva incominciato dal mobilio. Nel deposito di un rigattiere di Regent Street aveva trovato tre sedie e un letto di ferro, piuttosto malconcio, ma con una sua eleganza. Ci aveva aggiunto due poltrone sfondate di cuoio che avevano il colore delle palline da cricket. Affittò due tappeti enormi e costosissimi e comprò a prezzo irragionevole un appendiabiti da muro che veniva da una brasserie francese. A un certo punto fu tentato da un cavallo proveniente da una giostra del Settecento e lì capì che gli stava scappando la mano.

Una cosa che non riuscì subito a mettere a fuoco era come lui avrebbe scritto, se in piedi o seduto a una scrivania, con un computer, a mano, su grandi fogli, o su piccoli taccuini. C’era anche da capire se effettivamente avrebbe scritto, o si sarebbe limitato ad osservare e a pensare, raccogliendo poi in un secondo tempo, magari a casa, quello che gli fosse venuto in mente. Per i pittori era semplice, avevano la tela a cui stare davanti, quello non era strano. Ma uno che avesse voluto, invece, scrivere? Poteva mica starsene a un tavolo, davanti a un computer. Alla fine capì che qualunque cosa sarebbe stata ridicola tranne iniziare a lavorare e scoprire sul posto, al momento buono, cosa aveva un senso fare e cosa no. Dunque nessuna scrivania, niente portatile, neanche una matita, il primo giorno, decise. Si concesse solo una scarpiera, modesta, da appoggiare in un angolo: si immaginò che gli sarebbe piaciuto, ogni volta, poter mettere le scarpe che quel giorno gli sarebbero sembrate più adatte.

Occuparsi di tutte queste cose l’aveva fatto sentire immediatamente meglio e per un po’ non aveva più dovuto badare alle crisi che l’avevano afflitto per mesi. Quando sentiva arrivare una certa evanescenza che aveva imparato a riconoscere, evitava di spaventarsi e si concentrava sulle sue mille occupazioni, svolgendole con uno scrupolo ancora più maniacale. Nella cura dei dettagli trovava immediato sollievo. Questo lo portava, alle volte, a raggiungere vette di perfezionismo quasi letterarie. Gli accadde, ad esempio, di trovarsi davanti a un artigiano che faceva lampadine. Non lampade: lampadine. Le faceva a mano. Era un vecchietto con un lugubre laboratorio dalle parti di Camden Town. Jasper Gwyn l’aveva a lungo cercato, senza neppure sapere se esistesse, e alla fine l’aveva trovato. Quello che aveva in mente di chiedergli non era soltanto una luce molto particolare – infantile, avrebbe spiegato – ma soprattutto una luce che durasse un certo tempo determinato. Voleva lampadine che morissero dopo trentadue giorni di funzionamento.

– Di colpo, o agonizzando un po’?, chiese il vecchietto, come se conoscesse a fondo il problema.

21.

Quello delle lampadine potrà sembrare un punto di dubbia rilevanza, ma per Jasper Gwyn era invece diventato una questione cruciale. C’entrava con il tempo. Benché non avesse ancora la minima idea di che gesto potesse mai essere scrivere un ritratto, si era fatto una certa idea della sua possibile durata – come di un uomo che cammina nella notte è possibile decifrare la distanza e non l’identità. Aveva escluso da subito una cosa veloce, ma anche gli riusciva difficile pensare a un gesto abbandonato a una fine casuale e magari lontanissima. Così aveva incominciato a misurare – sdraiato per terra, nello studio, in assoluta solitudine – il peso delle ore, e la consistenza dei giorni. Aveva in mente una peregrinazione, simile a quella che aveva visto in quei quadri, quel giorno, e si era ripromesso di intuire la velocità del passo che l’avrebbe assolta e la lunghezza del cammino che l’avrebbe portata a destinazione. C’era da individuare la velocità a cui si sarebbero dissolti gli imbarazzi e la lentezza con cui sarebbe risalita in superficie una qualche verità. Si rese conto che, analogamente a quanto succede nella vita, solo una certa puntualità poteva rendere compiuto quel gesto – come felici alcuni istanti dei viventi.

Alla fine si era convinto che trentadue giorni potessero rappresentare una prima, credibile approssimazione. Stabilì che avrebbe tentato con una sessione di lavoro al giorno, per trentadue giorni, quattro ore al giorno. E lì arrivava il momento delle lampadine.

Il fatto è che non riusciva a immaginarsi qualcosa che finiva bruscamente, allo scadere dell’ultima seduta, in modo burocratico e impersonale. Era evidente che la fine di quel lavoro avrebbe dovuto avere un suo andamento elegante, perfino poetico, e possibilmente imprevedibile. Allora gli venne in mente la soluzione che aveva studiato per la luce – diciotto lampadine appese al soffitto, a distanze regolari, in bella geometria – e finì per immaginare che intorno al trentaduesimo giorno quelle lampadine iniziassero a spegnersi a una a una, a caso, ma tutte in un lasso di tempo non inferiore a due giorni e non superiore a una settimana. Vide lo studio scivolare in un buio a chiazze, secondo uno schema aleatorio, e arrivò a fantasticare su come si sarebbero spostati, lui e il modello, per usare le ultime luci, o al contrario per rifugiarsi nel primo buio. Si vide distintamente alla luce fioca di un’ultima lampadina, dare tardivi ritocchi al ritratto. E poi accettare il buio, al morire dell’ultimo filamento.

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