Mikhail Bulgakov - Il Maestro e Margherita
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— Dicono, — continuò il procuratore abbassando la voce, — che abbia ricevuto del denaro per aver accolto cosí cordialmente a casa sua quel filosofo pazzo.
— Ne riceverà, — lo corresse sommesso il capo del servizio segreto.
— Una grossa somma?
— Questo non lo può sapere nessuno, egemone.
— Neanche tu? — chiese l’egemone, la cui sorpresa equivaleva a una lode.
— Ahimè, neanch’io, — rispose calmo l’ospite. — Ma che riceverà il denaro questa sera, lo so. È stato convocato per oggi al palazzo di Caifa.
— Ah, l’avido vecchio di Kiriat, — osservò il procuratore sorridendo; — è un vecchio, nevvero?
— Il procuratore non sbaglia mai, ma questa volta si è sbagliato, — rispose affabile l’ospite. — L’uomo di Kiriat è un giovanotto.
— Ma no! Mi puoi dire qualcosa di lui? È un fanatico?
— Oh no, procuratore.
— Bene. Qualcos’altro?
— È bellissimo.
— E poi? Ha forse qualche passione?
— È difficile conoscere a fondo tutti in questa immensa città, procuratore…
— Oh no, no, Afranio! Non sminuire i tuoi meriti!
— Ha una passione, procuratore — . L’ospite fece una brevissima pausa. — La passione del denaro.
— Che fa?
Afranio alzò gli occhi al cielo, rifletté un istante, poi disse:
— Lavora nella bottega di un cambiavalute suo parente.
— Ah, già, già, già, già… — Qui il procuratore tacque, si voltò a guardare che non vi fosse nessuno sul balcone, e disse con voce sommessa: — Ecco di che si tratta: oggi ho saputo che stanotte lo ammazzeranno.
Qui non solo l’ospite lanciò il suo sguardo sul procuratore, ma ve lo trattenne addirittura un istante, poi rispose:
— Tu, procuratore, hai dato un giudizio troppo lusinghiero su di me. Non credo di meritare il tuo rapporto. Non ho notizie del genere.
— Tu sei degno della piú alta ricompensa, — rispose il procuratore, — ma queste notizie esistono.
— Posso permettermi di chiedere da dove provengono?
— Consentimi di non dirlo per ora, tanto piú che sono notizie casuali, oscure e dubbie. Ma sono obbligato a prevedere tutto. È questo il mio incarico, ma, soprattutto, ho fede nel mio presentimento che non mi ha mai ingannato. Le informazioni sono queste: un ignoto amico di Hanozri, sdegnato dal mostruoso tradimento di quel cambiavalute, si sta accordando coi suoi complici per ucciderlo questa notte, e fare avere di nascosto il denaro del tradimento al gran sacerdote con il biglietto: «Restituisco il denaro maledetto».
Il capo del servizio segreto non lanciò piú occhiate inattese all’egemone, e continuò ad ascoltarlo strizzando gli occhi, mentre Pilato proseguiva:
— Pensa un po’, al gran sacerdote farà piacere ricevere un regalo cosí in una notte di festa?
— Non solo non gli farà piacere, — rispose l’ospite con un sorriso, — ma immagino, procuratore, che questo causerà un grosso scandalo.
— Sono dello stesso parere. Proprio per questo ti prego di occuparti di questa faccenda, cioè di prendere le misure opportune per proteggere Giuda di Kiriat.
— L’ordine dell’egemone sarà eseguito, — disse Afranio, — ma devo tranquillizzarlo: il proposito dei malfattori è assai difficilmente realizzabile. Basta pensare, — senza smettere di parlare, l’ospite si voltò e proseguí: — pedinare un uomo, ammazzarlo, e per di piú sapere quanto ha preso e riuscire a restituire il denaro a Caifa, e tutto questo in una sola notte! Oggi!
— Eppure lo ammazzeranno oggi, — ripeté Pilato con ostinazione. — Ti dico che ne ho il presentimento! Non è mai successo che m’ingannasse! — Il volto del procuratore fu percorso da una smorfia, ed egli si fregò in fretta le mani.
— Ubbidisco, — rispose l’ospite docilmente, si alzò, si drizzò, e all’improvviso chiese con severità: — Allora lo ammazzeranno, egemone?
— Sí, — rispose Pilato, — e ogni speranza è riposta nella tua sbalorditiva efficienza.
L’ospite si aggiustò il pesante cinturone sotto il mantello e disse:
— Ti saluto, ti auguro salute e gioia!
— Ah sí, — esclamò sommessamente Pilato, — me ne ero dimenticato! Ti sono debitore!…
L’ospite si stupí:
— Davvero, procuratore, non mi devi niente.
— Ma come? Quando arrivai a Jerushalajim, ricordi, la folla di mendicanti… volevo buttar loro del denaro, ma non ne avevo con me, e ne presi da te.
— Oh, procuratore, è un’inezia!
— Bisogna ricordare anche le inezie — . Pilato si voltò, sollevò il mantello che stava sulla scranna dietro di lui, prese una borsa di pelle che si trovava sotto ad esso e la tese all’ospite. Questi fece un inchino accettandola, e la nascose sotto il suo mantello.
— Aspetto, — disse Pilato, — la relazione sulla sepoltura nonché su Giuda di Kiriat questa notte stessa, mi senti, Afranio, oggi. La guardia avrà l’ordine di svegliarmi non appena tu arriverai. Ti aspetto.
— Ti saluto, — disse il capo del servizio segreto e voltandosi, uscí dal balcone. Si udí la sabbia bagnata scricchiolare sotto i suoi piedi, poi si sentí lo scalpiccio dei suoi stivali sul marmo tra i leoni, poi gli sparirono le gambe, il torso, e infine scomparve anche il cappuccio. Solo allora il procuratore si accorse che il sole non c’era piú, e che era sopraggiunto il crepuscolo.
CAPITOLO VENTISEIESIMO
La sepoltura
Forse fu proprio a causa di quel crepuscolo che l’aspetto del procuratore cambiò bruscamente. Sembrava che fosse invecchiato e si fosse incurvato a vista d’occhio e inoltre era diventato inquieto. Guardò indietro e sussultò, quando lo sguardo cadde sulla scranna vuota, sul cui schienale era steso il mantello. Si avvicinava la notte festiva, le ombre serali giocavano il loro gioco e all’affaticato procuratore parve, probabilmente, che qualcuno sedesse in quella scranna vuota. Cedendo al timore, mosse il mantello, poi lo lasciò, e si mise a percorrere la loggia ora fregandosi le mani, ora accorrendo verso il tavolo e afferrando la coppa, ora fermandosi e guardando con occhi vuoti il mosaico del pavimento, come se cercasse di decifrarvi qualche segno…
In quel giorno, era già la seconda volta che lo afferrava la malinconia. Fregandosi la tempia, nella quale l’infernale dolore del mattino aveva lasciato solo un ricordo soffocato e vischioso, il procuratore si sforzava di capire la causa dei suoi tormenti interiori. E la capí rapidamente, ma cercò di ingannare se stesso. Gli era chiaro che quel mattino si era irreparabilmente lasciato sfuggire qualcosa, e adesso voleva ripararvi con azioni insignificanti e meschine, ma soprattutto tardive. L’inganno di se stesso consisteva nel fatto che il procuratore cercava di convincersi che le sue azioni, quelle attuali, della sera, non erano meno importanti della sentenza del mattino. Ma ci riusciva malissimo.
A una delle svolte si fermò di colpo e fischiò. In risposta rimbombò nel crepuscolo un basso latrato, e dal giardino balzò sulla loggia un gigantesco cane grigio dalle orecchie aguzze, con un collare ornato di piastre dorate.
— Banga, Banga, — gridò debolmente il procuratore.
Il cane si sollevò sulle zampe posteriori e pose quelle anteriori sulle spalle del padrone facendolo quasi cadere, e gli leccò la guancia. Il procuratore sedette sulla scranna. Banga, con la lingua penzoloni e il respiro frequente, si coricò ai piedi del padrone, e la gioia nei suoi occhi significava che era finito il temporale, unica cosa al mondo che l’impavido cane temesse, e anche che adesso si trovava di nuovo lí, accanto all’uomo che amava, rispettava e considerava il piú potente al mondo, signore di tutti, grazie al quale anch’esso si considerava un essere privilegiato, superiore e speciale. Coricato ai piedi del suo padrone, pur senza guardarlo, ma guardando il giardino avvolto dalla sera, capí subito che al suo padrone era successa una disgrazia. Perciò cambiò posa, si alzò, si avvicinò di lato, e pose le zampe anteriori e il muso sulle ginocchia del procuratore, sporcandogli l’orlo del mantello di sabbia umida. Le azioni di Banga dovevano probabilmente significare che cercava di consolare il suo padrone, ed era pronto ad affrontare con lui la mala sorte. Tentava di esprimere questo anche con gli occhi, rivolti al padrone, e con le aguzze orecchie drizzate. Cosí entrambi, il cane e l’uomo, affezionati l’uno all’altro, accolsero la notte festiva sul balcone.
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