Mikhail Bulgakov - Il Maestro e Margherita
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Quando sentí che i passi si smorzavano, Annuška sgusciò fuori della porta come una serpe, appoggiò il bidoncino al muro, si gettò bocconi sul pianerottolo e cominciò a tastare intorno a sé. A un tratto si trovò fra le mani un tovagliolino con qualcosa di pesante. Quando ebbe sciolto l’involtino, Annuška strabiliò. Accostò il gioiello agli occhi, e in questi occhi ardeva un fuoco come in quelli d’un lupo Nella testa di Annuška vorticava una bufera:
«Non so niente, non ho visto niente. Portarlo da mio nipote? O segarlo in tanti pezzettini?… Le pietre si possono cavar fuori e venderle una alla volta: una sulla Petrovka, un’altra allo Smolenskij. [21] La Petrovka è una via centrale di Mosca; lo Smolenskij era un mercato sulla piazza omonima
E io non so niente, non ho visto niente».
Annuška nascose in seno quel che aveva trovato, afferrò il bidoncino e stava per infilarsi di nuovo nell’appartamento, rinviando il suo viaggio in città, allorché le sorse davanti, sa il diavolo di dove fosse spuntato, quello stesso tipo dal petto bianco, senza giacca, e sussurrò piano:
— Fuori il ferro da cavallo e il tovagliolino!
— Che tovagliolino e che ferro da cavallo? — chiese Annuška, recitando molto abilmente la commedia. — Non so di nessun tovagliolino. Ehi, amico, è ubriaco?
Senza aggiungere altro, con dita dure come le maniglie d’un autobus, e altrettanto fredde, il tizio dal petto bianco strinse la gola di Annuška cosí forte da impedire all’aria qualsiasi accesso al di lei petto. Il bidoncino le cadde dalle mani e finí in terra. Dopo averla tenuta un po’ di tempo senz’aria, lo straniero privo di giacca tolse le dita dal suo collo. Inghiottita una boccata d’aria, Annuška sorrise.
— Ah, un piccolo ferro da cavallo? — disse. — Subito subito. Sicché è suo quel ferro? E io guardo, eccolo lí nel tovagliolino, l’ho messo via apposta, perché non lo raccattasse qualcuno e poi chi s’è visto s’è visto!
Ricevuto il ferro e il tovagliolino, lo straniero cominciò a strisciar riverenze davanti ad Annuška, a stringerle forte la mano e a ringraziarla calorosamente, con un fortissimo accento straniero, dicendo:
— Le sono profondamente grato, madame. Questo piccolo ferro da cavallo mi è caro perché è un ricordo. E mi permetta, giacché l’ha messo al sicuro, di porgerle duecento rubli — . E immantinente trasse il denaro dal taschino del panciotto e lo porse ad Annuška.
Questa, sorridendo perdutamente, si limitava a gridare:
— Ah, la ringrazio umilissimamente! Merci! Merci!
Il munifico straniero scivolò giú in un batter d’occhio per tutta la rampa, ma prima di sparire definitivamente gridò da sotto, senza piú nessun accento:
— Vecchia strega, se ti capita ancora una volta di raccattare la roba altrui, consegnala alla polizia, e non nasconderla in seno!
Con uno scampanio in testa e una gran confusione a causa di tutto quel che era avvenuto sulla scala, Annuška seguitò ancora un pezzo a gridare per inerzia:
— Merci! Merci! Merci!… — ma da molto tempo lo straniero non c’era piú.
E non c’era piú nemmeno la macchina in cortile. Dopo aver restituito a Margherita il dono di Woland, Azazello si accomiatò da lei e chiese se era seduta comodamente, Hella abbracciò e baciò di gusto Margherita, il gatto le baciò la mano, gli accompagnatori salutarono con la mano il Maestro che, inerte e immobile, stava quasi sdraiato in un angolo del sedile, fecero cenno al gracchio di partire e subito svanirono nell’aria, ritenendo inutile sobbarcarsi alla fatica di salire le scale. Il gracchio accese i fari e uscí dal portone, passando davanti all’uomo che dormiva della grossa. E le luci della grande macchina nera scomparvero fra le altre dell’insonne e rumorosa Sadovaja.
Un’ora dopo, nello scantinato di una casetta in uno dei vicoli dell’Arbat, nella prima stanza dove tutto era esattamente come prima della terribile notte autunnale dell’anno precedente, davanti alla tavola coperta da un tappeto di velluto, sotto la lampada col paralume, vicino alla quale c’era un piccolo vaso di mughetti, Margherita sedeva e piangeva sommessamente per tutte le emozioni che l’avevano sconvolta e per la felicità. Davanti a lei c’era un quaderno rovinato dal fuoco e accanto ad esso una pila di quaderni intatti. La casetta taceva. Nella piccola stanza attigua il Maestro giaceva sul divano, profondamente addormentato, coperto dalla vestaglia d’ospedale. Il suo respiro uguale era silenzioso.
Quando fu sazia di piangere, Margherita prese i quaderni intatti e ritrovò il passo che aveva riletto prima d’incontrarsi con Azazello sotto il muro del Cremlino. Margherita non aveva voglia di dormire. Accarezzava affettuosamente il manoscritto, come s’accarezza un gatto prediletto, e lo rigirava fra le mani, esaminandolo da ogni lato, ora soffermandosi sul frontespizio, ora aprendo l’ultimo foglio. Improvvisamente l’invase il terribile pensiero che tutto ciò fosse una stregoneria, che a momenti i quaderni sarebbero scomparsi, essa si sarebbe ritrovata nella sua camera da letto nella palazzina e, svegliandosi, avrebbe dovuto andare ad annegarsi. Ma fu questo l’ultimo pensiero terribile, la ripercussione delle lunghe sofferenze che aveva patito. Nulla spariva, l’onnipotente Woland era davvero onnipotente, e finché voleva, anche fino all’alba, Margherita avrebbe potuto sfogliare i quaderni, contemplarli e baciarli e rileggere le parole:
«Le tenebre, venute dal Mediterraneo, coprirono la città odiata dal procuratore… Sí, le tenebre…»
CAPITOLO VENTICINQUESIMO
Come il procuratore tentò di salvare Giuda di Kiriat
Le tenebre venute dal Mediterraneo coprirono la città odiata dal procuratore. Scomparvero i ponti sospesi che univano il tempio con la terribile torre Antonia, calò dal cielo un abisso che sommerse gli dèi alati sopra l’ippodromo, il palazzo Asmoneo con le feritoie, i mercati, i caravanserragli, i vicoli, gli stagni… sparí Jerushalajim, la grande città, come se non fosse mai esistita. Tutto era stato inghiottito dall’oscurità che aveva spaventato quanto di vivo c’era in Jerushalajim e dintorni. La strana nuvola giunse dalla parte del mare, il giorno quattordici del mese primaverile di Nisan, verso l’imbrunire.
Si riversò col ventre sul Golgota, dove i boia si affrettavano a dare il colpo di grazia ai condannati, si riversò sul tempio di Jerushalajim, quindi strisciò in torrenti fumosi dalla collina e inondò la città bassa. Affluiva nelle finestre e cacciava la gente dalle viuzze sghembe nell’interno delle case. Non si affrettava a liberarsi della sua umidità e si liberava soltanto della sua luce. Non appena la fumosa poltiglia nera veniva squarciata dal lampo, dal buio pesto balzava su la grande massa del tempio con lo scintillante tetto squamoso. Ma si spegneva in un attimo, e il tempio s’immergeva nel baratro nero. Diverse volte ne risorse, per sprofondarvi di nuovo, e ogni scomparsa veniva accompagnata da un fragore di catastrofe.
Altri bagliori tremuli traevano dall’abisso il palazzo di Erode il Grande che si ergeva sulla collina occidentale di fronte al tempio, e paurose statue d’oro decapitate balzavano verso il cielo nero protendendo le braccia. Ma di nuovo il fuoco celeste scompariva, e pesanti rombi di tuono ricacciavano gli idoli dorati nelle tenebre.
L’acquazzone s’abbatté all’improvviso, e il temporale si trasformò in un uragano. Nello stesso posto dove, verso mezzogiorno, presso la panchina di marmo nel giardino, conversavano il procuratore e il gran sacerdote, un colpo che sembrava una cannonata spaccò un cipresso come un fuscello. Insieme allo spolverio d’acqua e alla grandine, il vento portava, sul balcone sotto le colonne, rose strappate, foglie di magnolia, ramoscelli e sabbia. L’uragano si accaniva sul giardino.
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