Mikhail Bulgakov - Il Maestro e Margherita

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— Bisogna crederci, — disse il nuovo venuto, — ma naturalmente, sarebbe assai piú comodo ritenere che lei è il prodotto d’un’allucinazione. Mi scusi, — soggiunse il Maestro, riprendendosi.

— Be’, perché no? Se è piú comodo, lo ritenga pure, — rispose cortesemente Woland.

— No, no! — disse Margherita, spaventata, e scosse il Maestro per le spalle. — Rientra in te! Dinanzi a te c’è realmente lui!

A questo punto il gatto intervenne di nuovo:

— Io, però, assomiglio per davvero a un’allucinazione. Osservate un po’ il mio profilo al chiaro di luna — . Il gatto s’infilò nella striscia di luce lunare e stava per aggiungere ancora qualcosa, ma fu pregato di star zitto ed egli rispose: — Bene, bene, sono pronto a tacere. Sarò un’allucinazione taciturna, — e non fiatò piú.

— Dica un po’, perché Margherita la chiama Maestro? domandò Woland.

L’altro sogghignò e disse:

— È una debolezza perdonabile. Essa ha un concetto troppo alto del romanzo che ho scritto.

— Un romanzo su che cosa?

— Un romanzo su Ponzio Pilato.

A questo punto le fiammelle delle candele ripresero a ondeggiare e a guizzare, i piatti tintinnarono sulla tavola. Woland scoppiò in una risata tonante, ma quel riso non spaventò e non meravigliò nessuno. Behemoth, chi sa perché, applaudí.

— Su che cosa, su che cosa? Su chi? — disse Woland, e smise di ridere. — Questa è grossa. E non poteva trovare un altro argomento? Faccia un po’ vedere — . E Woland tese la mano con la palma all’insú.

— Io, purtroppo, non posso farlo, — rispose il Maestro, perché l’ho bruciato nella stufa.

— Scusi, non ci credo, — replicò Woland, — non può essere, i manoscritti non bruciano — . Si voltò verso Behemoth e disse: — Su, Behemoth, dammi qua il romanzo.

Il gatto, all’istante, saltò giú dalla seggiola e tutti videro che era seduto su un grosso pacco di manoscritti. Con un inchino, il gatto porse a Woland l’esemplare che stava sopra gli altri. Margherita si mise a tremare e gridò, commovendosi di nuovo fino alle lacrime:

— Eccolo, il manoscritto! Eccolo!

Si precipitò verso Woland e aggiunse, rapita:

— Onnipotente! Onnipotente!

Woland prese in mano l’esemplare che gli era stato dato, lo rivoltò, lo mise da parte e in silenzio, senza sorridere, piantò gli occhi in faccia al Maestro. Ma questi, non si sa perché, fu preso dalla tristezza e dalla paura, si alzò dalla seggiola, si torse le mani e, rivolto alla luna lontana, cominciò a mormorare, sussultando:

— Anche nelle notti di luna non ho pace… Perché mi hanno disturbato? Oh numi, oh numi!…

Margherita si aggrappò alla vestaglia da ospedale, si strinse ad essa e cominciò anche lei a mormorare, angosciata e piangente:

— Oh dio, ma perché la medicina non ti giova?

— Non è niente, non è niente, — sussurrava Korov’ev, insinuandosi accanto al Maestro, — non è niente, niente.. Ancora un bicchierino, e anch’io, per farle compagnia…

E il bicchierino ammiccò, scintillò al chiaro di luna, e questo bicchierino giovò. Il Maestro fu fatto sedere al suo posto e il volto del malato prese un’espressione tranquilla.

— Be’, adesso tutto è chiaro, — disse Woland, e batté le lunghe dita sul manoscritto.

— Chiarissimo, — confermò il gatto, dimentico della sua promessa di diventare un’allucinazione taciturna, — adesso la linea maestra di quest’opera mi è del tutto chiara. Che stai dicendo, Azazello? — chiese rivolgendosi al silenzioso Azazello.

— Dico, — rispose quello, con voce nasale, — che sarebbe bene affogarti.

— Sii misericordioso, — replicò il gatto, — e non suggerire quest’idea al mio signore. Credi a me, ti apparirei ogni notte nello stesso abbigliamento lunare del povero Maestro, e ti farei cenno di seguirmi. Come ti sentiresti, o Azazello?

— Be’, Margherita, — riattaccò Woland, — dica pure tutto quel che le occorre.

— Mi permetta di sussurrare con lui.

Woland annuí col capo, e Margherita, serrandosi all’orecchio del Maestro, gli bisbigliò qualcosa. Si sentí che egli rispondeva:

— No, è troppo tardi. Non voglio altro dalla vita se non vedere te. Ma te lo consiglio di nuovo, lasciami, andresti in malora con me.

— No, non ti lascerò, — rispose Margherita, e si rivolse a Woland: — La prego di farci tornare allo scantinato nel vicolo vicino all’Arbat, e che s’accenda la lampada e tutto sia di nuovo come prima.

Allora il Maestro si mise a ridere e cingendo la testa di Margherita sulla quale i riccioli s’erano disfatti da tempo, disse:

— Ah, Messere, non dia retta a una povera donna! In quello scantinato abita da tanto tempo qualcun altro, e in genere non si dà il caso che tutto sia di nuovo come prima — . Appoggiò la guancia alla testa della sua amica, abbracciò Margherita e intanto mormorava: — Poveretta, poveretta…

— Non si dà il caso, dice lei? — disse Woland. — È vero. Ma noi proveremo — . E chiamò: — Azazello!

Immediatamente un signore sbigottito e prossimo alla frenesia precipitò dal soffitto sul pavimento; era in camicia, ma chi sa perché aveva una valigia in mano e il berretto in testa. Quest’uomo traballava e s’accosciava per lo spavento.

— Mogaryč? — domandò Azazello all’individuo piovuto dal cielo.

— Aloizij Mogaryč, — rispose colui, tremando.

— È lei che, dopo aver letto l’articolo di Latunskij sul romanzo di quest’uomo, scrisse un reclamo contro di lui informando che egli teneva in casa letteratura illegale? domandò Azazello.

Il neoapparso signore illividí e si sciolse in lacrime di contrizione.

— Lei voleva trasferirsi nelle sue stanze? — chiese Azazello, con tutta la cordialità possibile, parlando nel naso.

Si udí nella stanza uno sbuffare di gatta inferocita, e Margherita, urlando:

— Ecco che cos’è una strega, ecco! — piantò le unghie in faccia ad Aloizij Mogaryč.

Successe un putiferio.

— Che fai? — gridò il Maestro, addolorato. — Margot, non disonorarti!

— Protesto! Questo non è un disonore! — sbraitò il gatto.

Margherita fu trascinata via da Korov’ev.

— Io ci ho aggiunto lo stanzino da bagno… — gridava Mogaryč, insanguinato, battendo i denti, e nel suo spavento cominciò a straparlare, — la sola imbiancatura… il vetriolo…

— Be’, è una bella cosa che ci abbia aggiunto lo stanzino da bagno, — disse Azazello in tono d’approvazione, — lui ha bisogno di fare dei bagni — . E gridò: — Via!

Allora Mogaryč fu rivoltato coi piedi all’insú e portato via dalla camera da letto di Woland attraverso la finestra aperta.

Il Maestro stralunò gli occhi, sussurrando:

— Forse, però, questo è un po’ piú pulito di quanto raccontava Ivan! — Profondamente sbalordito, si guardò intorno e disse infine al gatto: — Chiedo scusa, sei tu… è lei… — Si confuse, non sapendo come ci si rivolge a un gatto. — E lei quel gatto che fu fatto salire in tram?

— Sí, sono io, — confermò il gatto, lusingato, e soggiunse: — Mi fa piacere sentire come tratta cortesemente un gatto. Ai gatti, di solito, si dà del tu chissà perché, anche se nessun gatto ha mai fraternizzato con qualcuno trincando insieme.

— Mi sembra che lei non sia proprio un gatto… — rispose, esitando, il Maestro. — All’ospedale s’accorgeranno lo stesso della mia assenza, — soggiunse timidamente, rivolto a Woland.

— Di che cosa vuol mai che s’accorgano, — lo rassicurò Korov’ev, e libri e carte gli apparvero tra le mani: — È la storia della sua malattia?

— Sí…

Korov’ev scaraventò la storia della malattia nel caminetto.

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