Mikhail Bulgakov - Il Maestro e Margherita

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— Perché no, — rispose con aria di protezione Arkadij Apollonovič, — ma non deve mancare lo smascheramento.

— Signorsí, signorsí. Mi permetta dunque di chiederle: dov’è stato ieri sera, Arkadij Apollonovič?

A questa domanda fuori posto, e forse persino villana, il volto di Arkadij Apollonovič cambiò, e cambiò in modo assai forte.

— Ieri sera, Arkadij Apollonovič presenziava a una seduta della Commissione acustica, — dichiarò con fare molto altero la moglie di Arkadij Apollonovič, — ma non capisco che rapporto abbia questo con la magia.

— Oui, madame! — confermò Fagotto. — Naturalmente, lei non capisce. In quanto alla seduta, lei è in completo errore. Uscito per recarsi alla predetta seduta, la quale, tra parentesi, non era affatto indetta per ieri, Arkadij Apollonovič lasciò libero il suo autista presso l’edificio della Commissione, agli stagni Cistye, — (l’intero teatro stava col fiato sospeso), — e con l’autobus si recò in via Elochovskaja a far visita a Milica Andreevna Pokobat’ko, attrice della compagnia viaggiante rionale, e vi rimase per circa quattro ore.

— Ohi! — esclamò qualcuno con voce sofferente tra il silenzio generale.

La giovane parente di Arkadij Apollonovič sbottò a ridere con voce bassa e terribile.

— Capisco tutto! — esclamò.- Lo sospettavo da tempo. Adesso so perché quella nullità ha avuto la parte di Luisa!!

E con un inatteso slancio, calò il suo corto e grosso ombrello viola sulla testa di Arkadij Apollonovič.

Il vile Fagotto, ossia Korov’ev, esclamò:

— Ecco, egregi signori, un esempio di quello smascheramento che Arkadij Apollonovič esigeva con tanta insistenza!

— Canaglia, come hai osato toccare Arkadij Apollonovič? — chiese con voce minacciosa la moglie di Semplejarov, ergendosi nel palco in tutta la sua gigantesca statura.

Un secondo scoppio di riso satanico s’impadroní della giovane parente.

— Se qualcuno ha il diritto di toccarlo, — rispose sghignazzando — quella sono io! — E per la seconda volta si udí il rumore secco dell’ombrello che rimbalzò dalla testa di Arkadij Apollonovič.

— Polizia! Pigliatela! — urlò la moglie con voce cosí tremenda che molti sentirono raggelarsi il cuore.

Come se non bastasse, il gatto balzò verso la ribalta, e ringhiò per tutto il teatro con voce umana:

— Lo spettacolo è finito! Maestro! Ci spari una marcia!

Il direttore d’orchestra, mezzo istupidito, senza rendersi conto di quel che faceva, alzò la bacchetta, e l’orchestra non suonò, neppure attaccò, neppure scatenò, ma, secondo la disgustosa espressione del gatto, sparò una marcetta inverosimile, di una sfacciataggine inaudita.

Per un istante sembrò che un tempo, sotto le stelle del Sud, nei café-chantant, si fossero già sentite le parole poco comprensibili, quasi insensate ma smargiasse di quella marcetta:

Sua eccellenza
Amava le pollastrelle
E proteggeva
Le pupette belle!!!

Ma forse non esistevano affatto quelle parole, ma altre, sullo stesso motivo, oltremodo indecenti. Questo però non importa: importa che al Varietà cominciò allora una vera babele. Verso il palco di Semplejarov correva la polizia, i curiosi si arrampicavano fin sulla balaustra, si udivano scoppi di risate infernali, urla furiose, coperte dal suono dei piatti dorati dell’orchestra.

Si vide il palcoscenico diventare vuoto all’improvviso, e Fagotto il furfante e l’insolente gattaccio Behemoth si disciolsero nell’aria, scomparendo come prima era scomparso il mago con la poltrona dalla fodera sbiadita.

CAPITOLO TREDICESIMO

L’apparizione dell’eroe

E cosí, lo sconosciuto minacciò Ivan con un dito e sussurrò: — Sttt!…

Ivan buttò le gambe giú dal letto e guardò con attenzione. Un uomo sui trentotto anni, rasato, scuro di capelli, col naso aguzzo, gli occhi inquieti e una ciocca di capelli che gli pendeva sulla fronte, guardava cautamente dal balcone dentro la stanza.

Dopo essersi assicurato che Ivan era solo ed essersi messo in ascolto, il visitatore misterioso si fece coraggio ed entrò nella stanza. Ivan vide che indossava indumenti ospedalieri: biancheria intima, pantofole sui piedi nudi, e sulle spalle aveva buttato una vestaglia bruna.

L’uomo ammiccò a Ivan, nascose in tasca un mazzo di chiavi, poi chiese: — Posso sedermi? — e, dopo un cenno affermativo di Ivan, si sistemò nella poltrona.

— Come ha fatto a venire qui? — chiese Ivan in un sussurro, ubbidendo al secco dito minaccioso. — Le inferriate non sono chiuse a chiave?

— Certo che lo sono, — confermò l’ospite, — ma Praskov’ja Fëdorovna è una carissima persona, ma, ohimè, distratta. Un mese fa, le ho portato via il mazzo di chiavi, ottenendo cosí la possibilità di uscire sul balcone comune che gira lungo tutto il piano, e di fare visita a qualche vicino.

— Se può uscire sul balcone, può anche scappare. O è troppo alto? — s’interessò Ivan.

— No, — rispose con voce ferma lo sconosciuto, — non posso scappare di qui non perché sia alto, ma perché non so dove andare — . E dopo una pausa, soggiunse: — Allora, facciamo quattro chiacchiere?

— Ma sí, — rispose Ivan, fissando gli occhi castani e molto irrequieti del nuovo venuto.

— Già… — qui l’ospite fu preso da inquietudine. — Lei, spero, non è pazzo furioso? Perché, sa, io non sopporto il rumore, lo scompiglio, le violenze e ogni cosa di questo tipo. Mi sono odiose soprattutto le urla della gente, siano urla di dolore, di rabbia o di ogni altra specie. Mi tranquillizzi, mi dica che non è un pazzo furioso.

— Ieri al ristorante ho spaccato il muso a uno, — confessò virilmente il poeta, trasfigurato.

— Il motivo? — chiese con severità l’ospite.

— Riconosco che non c’era un motivo, — rispose Ivan, turbato.

— È una vergogna, — sentenziò l’ospite, e aggiunse: — E poi, questo modo di parlare: «ho spaccato il muso»… In fondo, non si sa se l’uomo abbia un volto o un muso. Forse, piuttosto, un volto. Allora sa, i pugni… No, guardi, la smetta, e per sempre.

Dopo questa paternale, l’ospite s’informò:

— La sua professione?

— Poeta, — confessò Ivan controvoglia.

Il nuovo venuto si rattristò:

— Oh, come sono sfortunato! — esclamò, ma si riprese subito, si scusò, e chiese: — Come si chiama?

— Bezdomnyj.

— Eh, eh, — fece l’ospite con una smorfia.

— Perché, non le piacciono le mie poesie? — chiese Ivan con curiosità.

— Non mi piacciono proprio niente.

— Quali ha letto?

— Non ho mai letto poesie sue! — esclamò innervosito il visitatore.

— Allora, come fa a dire che non le piacciono?

— Che c’è di male? — rispose l’ospite. — Come se non avessi mai letto quelle degli altri. Però, magari… un miracolo? Bene, sono pronto a fidarmi. Mi dica lei stesso, sono buone, le sue poesie?

— Orrende! — disse Ivan con coraggio e sincerità.

— Non ne scriva piú! — pregò l’uomo con voce implorante.

— Prometto e giuro! — dichiarò Ivan solennemente.

Il giuramento fu suggellato da una stretta di mano, e in quell’istante dal corridoio giunse un rumore di voci e di passi felpati.

— Sttt! — sussurrò l’ospite, e balzò sul balcone, richiudendo l’inferriata.

Entrò Praskov’ja Fëdorovna, chiese a Ivan come si sentiva e se desiderava dormire al buio o con la luce. Ivan la pregò di lasciare la luce accesa, e Praskov’ja Fëdorovna si allontanò dopo aver augurato al malato una buona notte. Quando tutto tacque, l’ospite ritornò.

In un sussurro, raccontò a Ivan che nella stanza n. 119 avevano portato un nuovo, un grassone dalla faccia purpurea, che borbottava continuamente qualcosa a proposito di certa valuta estera nel condotto di aerazione e che giurava che nella sua casa sulla Sadovaja aveva preso alloggio lo spirito maligno.

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