Mikhail Bulgakov - Il Maestro e Margherita
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In modo forzato e secco Grigorij Danilovič chiese al tipo a quadretti che gli era capitato tra capo e collo, dove fosse l’attrezzatura dell’artista.
— Diamante nostro divino, preziosissimo signor direttore, — rispose l’aiutante del mago con voce tremolante, i nostri apparecchi sono sempre con noi, eccoli! Ein, zwei, drei! — E dopo aver rigirato le dita nodose davanti agli occhi di Rimskij, estrasse all’improvviso da dietro un orecchio del gatto l’orologio d’oro di Rimskij con la sua catena, che fino a quel momento si trovavano nel taschino del gilè sotto la giacca abbottonata, con la catena infilata nell’occhiello.
Involontariamente Rimskij si afferrò la pancia, i presenti lanciarono esclamazioni, e il truccatore, che occhieggiava dalla porta, emise un grugnito di approvazione.
— È suo, l’orologino? Se lo prenda, per favore, — disse quello a quadretti con un sorriso insolente, e, sopra la palma sporca, porse a Rimskij, sbigottito, l’oggetto di sua proprietà.
— Con uno cosí è meglio non salire in tram, — sussurrò il presentatore al truccatore, con voce sommessa e allegra.
Ma il gatto ne fece una piú bella di quella con l’orologio. Si alzò all’improvviso dal divano, andò, reggendosi sulle zampe posteriori, al tavolino da toilette, con una zampa anteriore estrasse il tappo dalla caraffa, si versò dell’acqua in un bicchiere, la bevve, rimise il tappo al suo posto e si asciugò i baffi con un cencio del truccatore.
Qui non si udirono neppure piú esclamazioni: tutti spalancarono la bocca, mentre il truccatore sussurrò con ammirazione.
— Che classe!…
In quel momento per la terza volta suonarono inquieti i cicalini, e tutti, pregustando quel numero sensazionale, uscirono eccitati dal camerino.
Un minuto dopo, nella sala si spensero i globi, si accese la ribalta che lanciò sulla parte inferiore del sipario un riflesso rossastro e nella fessura illuminata del sipario apparve davanti ai pubblico un uomo grassoccio allegro come un bambino, dal volto rasato, col frac sgualcito e la camicia non di bucato. Era il presentatore Georges Bengal’skij, ben noto a tutta Mosca.
— E cosí, signori, — cominciò Bengal’skij con un sorriso da pargolo, — adesso vedrete… — Qui Bengal’skij si interruppe e cambiò tono: — Vedo che il pubblico è ancora aumentato per quest’ultima parte dello spettacolo. Oggi abbiamo qui mezza città! Qualche giorno fa, incontro un amico e gli dico: «Perché non vieni da noi? Ieri abbiamo avuto mezza città!» E lui mi risponde: «Io vivo nell’altra mezza!» — Bengal’skij fece una pausa aspettandosi uno scoppio di risate, ma poiché nessuno rise, continuò: — … E cosí vedrete il celebre artista straniero monsieur Woland in una seduta di magia nera. Be’, noi tutti sappiamo, — qui Bengal’skij fece un sorriso pieno di saggezza, — che la magia nera non esiste, che non è altro che superstizione, ma il fatto è che il maestro Woland padroneggia al massimo grado la tecnica della prestidigitazione, come si vedrà nella parte piú interessante, cioè quando questa tecnica verrà smascherata, e poiché noi tutti come un sol uomo siamo interessati sia alla tecnica sia al suo smascheramento, ecco a voi il signor Woland!…
Dopo aver pronunciato tutte queste corbellerie, Bengal’skij riuní le mani palmo contro palmo, e le agitò in segno di saluto nella fessura del sipario, al che questo si aperse con un fruscio.
L’apparizione del mago con l’aiutante spilungone e col gatto che entrò in scena camminando sulle zampe posteriori, piacque molto al pubblico.
— Una poltrona, — ordinò sottovoce Woland, e nello stesso istante apparve da chi sa dove una poltrona, su cui il mago si sedette. — Dimmi, gentile Fagotto, — domandò Woland al buffone vestito a quadretti che, oltre a quello di Korov’ev, aveva evidentemente un altro nome, — che ne dici, la popolazione di Mosca è molto cambiata?
Il mago guardò il pubblico silenzioso, stupefatto dall’apparizione della poltrona.
— Signorsí, Messere, — rispose sommesso Fagotto-Korov’ev.
— Hai ragione. I cittadini sono molto cambiati… esternamente dico… come la stessa città, del resto… Non parliamo poi dell’abbigliamento, ma sono apparsi quei… come si chiamano… tram, automobili…
— Autobus, — suggerí rispettosamente Fagotto.
Il pubblico seguiva con attenzione quel colloquio, pensando che esso fosse un preludio ai trucchi di magia. Le quinte erano gremite di attori e di macchinisti, e tra i loro volti si vedeva quello pallido e teso di Rimskij.
La faccia di Bengal’skij, che si era rifugiato in un lato del palcoscenico, cominciò ad esprimere imbarazzo. Egli alzò lievemente un sopracciglio e, approfittando di una pausa, disse:
— L’artista straniero esprime la sua ammirazione per Mosca, progredita dal punto di vista tecnico nonché per i moscoviti, — qui Bengal’skij sorrise due volte, dapprima alla platea, poi alla balconata.
Woland, Fagotto e il gatto voltarono la testa verso il presentatore.
— Ho forse espresso ammirazione? — chiese il mago a Fagotto.
— Signornò, Messere, lei non ha espresso ammirazione alcuna, — rispose quello.
— Allora che cosa dice quello lí?
— Racconta balle, ecco tutto! — comunicò l’aiutante quadrettato con voce sonora che si sentí in tutto il teatro e, rivolgendosi a Bengal’skij, aggiunse: — Mi congratulo con lei, signor contaballe!
In balconata si sparse un risolino, e Bengal’skij sussultò e sbarrò gli occhi.
— Ma naturalmente, non mi interessano tanto gli autobus, i telefoni e l’altra…
— Attrezzatura, — suggerí il tipo a quadretti.
— Giusto, grazie, — diceva lentamente il mago con grave voce di basso, — quanto una questione ben piú importante: sono cambiati internamente, questi cittadini?
— Sí, è una questione importantissima, signore.
Tra le quinte cominciarono a scambiarsi degli sguardi e a stringersi nelle spalle; Bengal’skij era rosso, Rimskij pallido. Ma a questo punto, come se avesse intuito la nascente preoccupazione, il mago disse:
— Però la nostra conversazione è andata per le lunghe caro Fagotto, e il pubblico comincia ad annoiarsi. Facci vedere qualcosa di semplice per incominciare.
Il pubblico fece un movimento di sollievo. Fagotto e il gatto si allontanarono in direzione opposta lungo la ribalta Fagotto schioccò le dita, gridò con baldanza: — Tre, quattro! — afferrò dall’aria un mazzo di carte, lo mescolò e lo lanciò come una stella filante al gatto. Questo la prese al volo e la rimandò indietro. Il serpente satinato frusciò.
Fagotto aprí la bocca come un uccellino, e lo inghiottí interamente, carta dopo carta. Poi il gatto si inchinò, sbattendo la zampa posteriore destra, e riscosse applausi incredibili:
— Che classe! Che classe! — gridavano rapiti, dietro le quinte.
Fagotto puntò il dito verso la platea, e dichiarò:
— Adesso il mazzo di carte, egregi signori, si trova in settima fila, dal signor Parcevskij, esattamente tra un biglietto da tre rubli e una convocazione del tribunale per il mancato pagamento degli alimenti della signora Zel’kova.
Nella platea il pubblico si mosse, cominciò ad alzarsi e finalmente un signore che si chiamava proprio Parcevskij purpureo dallo stupore, trasse dal portafoglio il mazzo di carte e lo scosse in aria non sapendo che farne.
— Lo tenga per ricordo! — gridò Fagotto. — Non per niente lei diceva ieri a cena che, non fosse per il poker, la sua vita a Mosca sarebbe del tutto insopportabile.
— È vecchio, il trucco! — si udí dal loggione. — Quello della platea è uno dei vostri!
— Crede? — urlò Fagotto, socchiudendo gli occhi per meglio vedere il loggione. — In questo caso anche lei fa parte della nostra banda, perché anche lei ha il mazzo in tasca.
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