Mikhail Bulgakov - Il Maestro e Margherita
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— Sí, sono io, — rispose Varenucha con voce ostile.
— Piacere, molto piacere, — rispose con voce piagnucolosa il gattesco individuo e all’improvviso, preso lo slancio, appioppò a Varenucha una sventola tale sull’orecchio che il berretto volò via dalla testa dell’amministratore e scomparve senza lasciare tracce nel buco del gabinetto.
Il colpo del grassone illuminò per un attimo l’intero gabinetto con una luce palpitante e nel cielo echeggiò un colpo di tuono. Poi lampeggiò ancora, e davanti all’amministratore comparve un secondo individuo, piccolo, ma dalle spalle atletiche, con capelli rossi come il fuoco… un occhio con l’albugine, la bocca con una zanna… Questo secondo individuo, essendo evidentemente mancino, pestò l’amministratore sull’altro orecchio. In risposta tuonò di nuovo, e sul tetto di legno del gabinetto si rovesciò una pioggia torrenziale.
— Ma che vi piglia, compa… — sussurrò l’amministratore rincretinito, e resosi subito conto che la parola «compagni» non si addiceva di certo a dei banditi che assalivano un uomo in un gabinetto pubblico, rantolò: — Citta… capí che non meritavano neppure questo appellativo, e si pigliò un terzo tremendo colpo, senza sapere chi dei due glielo avesse tirato, sí che, dal naso, il sangue gli zampillò sul camiciotto.
— Che cos’hai nella cartella, parassita? — urlò con voce penetrante quello che somigliava a un gatto. — I telegrammi? Ti hanno pur avvertito per telefono di non portarli? Ti hanno avvertito, sí o no?
— Mi hanno avver… ver… vertito… — rispose l’amministratore boccheggiando.
— E ti sei precipitato lo stesso? Dammi qui la cartella verme! — gridò il secondo con la stessa voce nasale già sentita al telefono, e strappò la cartella dalle mani tremanti di Varenucha.
Entrambi presero l’amministratore sottobraccio, lo trascinarono fuori dal giardino e se lo portarono dietro lungo la Sadovaja. Il temporale imperversava a tutto spiano, l’acqua, con fragore e ululando, precipitava nei tombini, dovunque si gonfiavano, coprendosi di bolle, le onde, dai tetti l’acqua si riversava oltre le grondaie, dagli androni uscivano in corsa torrenti schiumosi. Tutto ciò che era vivo si era eclissato dalla Sadovaja, e non c’era nessuno che potesse salvare Ivan Savel’evic. Saltando tra i fiumi torbidi e illuminandosi coi lampi, i banditi trascinarono in un batter d’occhio l’amministratore mezzo morto fino al 302 bis, balzarono nell’androne dove si stringevano al muro due donne scalze che tenevano in mano le scarpe e le calze fradice. Poi si precipitarono verso l’interno 6, e Varenucha, prossimo alla pazzia, fu portato al quinto piano e gettato sul pavimento nella semibuia anticamera, a lui ben nota, dell’appartamento di Stepa Lichodeev.
Qui i due briganti scomparvero, e al loro posto comparve nell’anticamera una ragazza completamente nuda, rossa di capelli, con gli occhi che ardevano di un bagliore fosforescente.
Varenucha capí che quella era la cosa piú terribile tra tutto quello che gli era capitato e, con un gemito, indietreggiò verso la parete. La ragazza si avvicinò all’amministratore e gli mise le mani sulle spalle. I capelli di Varenucha si rizzarono perché anche attraverso la stoffa fredda, imbevuta d’acqua, del camiciotto sentí che quelle mani erano ancora piú fredde, fredde di un freddo di ghiaccio.
— Toh, ti voglio dare un bacio, — disse la ragazza con tenerezza, e gli occhi lucenti si avvicinarono ai suoi. Varenucha perse i sensi e non percepí il bacio.
CAPITOLO UNDICESIMO
Lo sdoppiamento di Ivan
Sull’altra sponda del fiume, il boschetto che un’ora prima era illuminato dal sole di maggio, s’intorbidí, si stemperò e si dissolse.
Dietro la finestra, l’acqua scendeva a formare un velo ininterrotto… In alto a ogni istante si accendevano filamenti, il cielo scoppiava, la camera del malato si riempiva di una luce palpitante e minacciosa.
Ivan piangeva sommesso, seduto sul letto, guardando il fiume torbido coperto di bolle. A ogni tuono gemeva lamentosamente e si copriva il volto con le mani. I foglietti da lui scritti erano sparsi sul pavimento. Li aveva soffiati via il vento che era volato nella stanza prima dell’inizio del temporale.
I tentativi del poeta di stendere una dichiarazione a proposito del terribile consulente non erano approdati a nulla. Non appena la grassa assistente, che si chiamava Praskov’ja Fëdorovna, gli aveva dato un mozzicone di matita e della carta, si era fregato soddisfatto le mani e si era messo in fretta al tavolino. L’inizio gli venne abbastanza facile.
«Alla polizia. Dichiarazione di Ivan Nikolaevič Bezdomnyj, membro del MASSOLIT. Ieri sera andai col defunto M. A. Berlioz agli stagni Patriaršie…»
E subito il poeta s’ingarbugliò, soprattutto per via della parola «defunto». Fin dalle prime righe veniva fuori un’incongruenza come si faceva a dire: «Andai col defunto»? I defunti non camminano! Cosí magari lo avrebbero preso sul serio per un matto.
Dopo questi pensieri, Ivan Nikolaevič cominciò a correggere quanto aveva scritto. Col seguente risultato: «con M. A. Berlioz, in seguito defunto…» Ma neppure questa forma soddisfece l’autore. Si dovette ricorrere a una terza variante, ma questa risultò ancora peggiore delle precedenti: «Berlioz che andò a finire sotto un tram…» Qui saltò fuori l’altro Berlioz, l’omonimo compositore che nessuno conosce, e si dovette aggiungere: «non il compositore…»
Dopo essersi tormentato con questi due Berlioz, Ivan cancellò tutto e decise di cominciare subito con qualcosa di forte per attirare immediatamente l’attenzione del lettore, e scrisse che il gatto era salito sul tram, poi tornò all’episodio della testa mozzata. La testa e la predizione del consulente lo fecero pensare a Ponzio Pilato, e per riuscire piú convincente, decise di esporre l’intero racconto sul procuratore e cominciare dal momento in cui egli, col mantello bianco foderato di rosso, era entrato nel porticato del palazzo di Erode.
Ivan lavorava di buona lena, cancellava, inseriva parole nuove, e tentò perfino di disegnare Ponzio Pilato, poi il gatto ritto sulle zampe posteriori. Ma neanche i disegni furono d’aiuto: piú andava avanti, piú la dichiarazione del poeta diventava ingarbugliata e incomprensibile.
Quando da lontano apparve la nuvola minacciosa dai bordi fumiganti, e coprí la pineta, e il vento cominciò a soffiare, Ivan si sentí esausto, capí che non ce l’avrebbe fatta a stendere la dichiarazione, non stette a raccogliere i foglietti volati via e scoppiò a piangere sommessamente e amaramente. La bonaria assistente Praskov’ja Fëdorovna venne a visitare il poeta durante il temporale, si preoccupò vedendolo singhiozzare, abbassò la tapparella perché i fulmini non spaventassero l’ammalato, raccolse i foglietti e corse a chiamare il medico.
Questo venne, fece un’iniezione nel braccio a Ivan e gli assicurò che non avrebbe piú pianto, che adesso tutto sarebbe passato, cambiato, dimenticato.
Il medico ebbe ragione. Ben presto il bosco oltre il fiume ridiventò quello di prima. Ogni suo albero si stagliava nel cielo tornato sereno e azzurro come prima, e il fiume si era calmato. L’angoscia aveva cominciato a lasciare Ivan subito dopo l’iniezione, e ora il poeta se ne stava tranquillo e guardava l’arcobaleno che attraversava il cielo.
Cosí continuò fino a sera. Non si accorse nemmeno che l’arcobaleno si era disciolto, che il cielo era diventato triste e sbiadito, che la pineta si era fatta nera.
Dopo aver bevuto del latte caldo, Ivan tornò a letto e si stupí di come fossero cambiati i suoi pensieri. Il ricordo del maledetto, diabolico gatto si era placato, non lo spaventava piú la testa tagliata, e, senza pensarci piú, Ivan cominciò a riflettere che, in sostanza, in quella clinica non si stava male, che Stravinskij era una testa fina e una celebrità e che avere a che fare con lui era estremamente piacevole. L’aria della sera, inoltre, era soave e fresca dopo il temporale.
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