Mikhail Bulgakov - Il Maestro e Margherita

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… Laureatosi in storia, ancora due anni prima lavorava in un museo di Mosca, facendo anche delle traduzioni.

— Da che lingua? — lo interruppe Ivan interessato.

— Conosco cinque lingue oltre alla russa, — rispose l’ospite, — inglese, francese, tedesco, latino e greco. E leggo un po’ l’italiano.

— Accidenti! — sussurrò invidioso Ivan.

… Lo storico viveva solo, non aveva parenti e quasi nessun conoscente a Mosca. E un giorno, figuratevi, vinse centomila rubli.

— S’immagini il mio stupore, — sussurrava l’ospite dal berretto nero, — quando infilai la mano nel cesto della biancheria sporca e vidi lo stesso numero pubblicato sul giornale! Le obbligazioni me le avevano date al Museo.

… Dopo che ebbe vinto centomila rubli, l’enigmatico ospite di Ivan si comportò in questo modo: comperò dei libri, lasciò la sua camera sulla Mjasnickaja…

— Uh, maledetto buco! — ruggí.

… E affittò da un capomastro, in un vicolo presso l’Arbat, due camere nello scantinato di una casetta col giardino. Lasciò il lavoro del Museo, e cominciò a scrivere un romanzo su Ponzio Pilato.

— Oh, era l’età dell’oro! — sussurrava il narratore con gli occhi scintillanti. — Un appartamentino indipendente, col suo ingresso, e nell’ingresso un lavandino, — sottolineò con particolare orgoglio, chi sa poi perché, — le piccole finestrelle sopra il marciapiede che portava al cancello. Di fronte, a due passi, lungo la palizzata, lillà, tigli e un acero. Oh, oh, oh! D’inverno, molto raramente vedevo dalla finestra dei piedi neri e udivo il loro scricchiolio sulla neve. Nella stufa il fuoco era sempre acceso! Ma all’improvviso giunse la primavera, e attraverso i vetri torbidi vidi i cespugli del lillà dapprima nudi, poi rivestiti di verde. In quel periodo, la primavera scorsa, successe qualcosa di molto piú meraviglioso che la vincita di centomila rubli. Eppure, ne convenga, si tratta di una somma enorme!

— Senz’altro, — riconobbe Ivan, che ascoltava con attenzione.

— Avevo aperto la finestrella e me ne stavo nella seconda stanza, che era piccola piccola — . L’ospite si mise a indicarne la pianta con le mani: — Qui c’era un divano, di fronte un altro divano, in mezzo un tavolino, e sopra una bellissima lampada; piú vicino alla finestra, dei libri, qui una piccola scrivania; invece nella prima stanza — una stanza enorme: quattordici metri! — libri, ancora libri, e la stufa. Oh, com’ero sistemato bene! Il lillà ha un profumo straordinario! La mia testa diventava leggera dalla stanchezza, e Pilato volava verso la fine…

— Il mantello bianco, la fodera rossa, capisco! — esclamò Ivan.

— Proprio cosí! Pilato volava verso la fine, verso la fine, e sapevo già che le ultime parole del romanzo sarebbero state «… il quinto procuratore della Giudea, il cavaliere Ponzio Pilato». Be’, naturalmente, facevo delle passeggiate. Centomila rubli sono una somma enorme, e avevo un vestito magnifico. Oppure andavo a mangiare in un ristorante a prezzo economico. Sull’Arbat c’era un ottimo ristorante, non so se esista ancora — . Gli occhi dell’ospite si spalancarono, ed egli continuò a sussurrare, guardando la luna: — Essa aveva in mano orribili fiori gialli inquieti. Non so come si chiamino, ma sono sempre i primi ad apparire a Mosca. Questi fiori si stagliavano nettamente sul suo soprabito nero primaverile. Aveva fiori gialli! Un brutto colore. Dalla Tverskaja svoltò in un vicolo e si voltò. Conosce la Tverskaja, no? Lungo la Tverskaja camminavano migliaia di persone, ma le garantisco che essa vide me solo e mi guardò, non dico preoccupata, ma addirittura in un certo qual modo morboso. Fui colpito non tanto dalla sua bellezza, quanto dalla straordinaria, mai vista solitudine nei suoi occhi! Ubbidendo a quel richiamo giallo, anch’io svoltai nel vicolo e la seguii. Camminavamo in silenzio lungo il vicolo triste e storto, io da un lato, lei dall’altro. E si figuri che non c’era anima viva. Mi tormentavo perché mi sembrava che fosse necessario parlarle, e temevo che non sarei riuscito a pronunciare neppure una parola, e lei se ne sarebbe andata, e non l’avrei mai piú rivista. E s’immagini, a un tratto fu lei a parlare:

— Le piacciono i miei fiori?

Mi ricordo chiaramente il suono della sua voce, alquanto bassa, ma con brusche variazioni di tono, e — è sciocco, lo so — parve che un’eco risuonasse nel vicolo e si ripercuotesse nel muro giallo e sporco. Passai in fretta sull’altro marciapiede e, avvicinandomi a lei, risposi:

— No.

Mi guardò sorpresa, e, di colpo, in modo del tutto inatteso, sentii che per tutta la vita avevo amato proprio quella donna! Che storia, eh? Lei dirà, naturalmente, che sono pazzo.

— Non dico niente, — esclamò Ivan, e soggiunse: — La supplico, continui!

L’ospite continuò.

— Sí, mi fissò sorpresa, e poi, dopo avermi fissato, chiese:

— Non le piacciono i fiori?

Nella sua voce mi parve sentire dell’ostilità. Le camminavo accanto, cercando di tenere il passo, e, con mio grande stupore, non mi sentivo affatto imbarazzato.

— No, mi piacciono i fiori, ma non questi, — dissi.

— Quali le piacciono?

— Le rose.

Rimpiansi le mie parole, perché lei ebbe un sorriso contrito e gettò i suoi fiori nel rigagnolo. Li raccattai, un po’ confuso, e glieli porsi, ma lei, sorridendo, li respinse ed essi mi rimasero in mano.

Camminammo cosí, silenziosi, per un po’, finché lei non mi tolse i fiori di mano e li gettò sul selciato, poi infilò sotto il mio braccio la mano col guanto nero svasato, e proseguimmo vicini.

— E poi? — disse Ivan. — Per favore, non salti niente!

— E poi? — l’ospite ripeté la domanda. — Quello che successe poi, lo può indovinare lei stesso — . Inaspettatamente si asciugò una lacrima con la manica destra, e proseguí: — L’amore ci si parò dinanzi come un assassino sbuca fuori in un vicolo, quasi uscisse dalla terra, e ci colpí subito entrambi. Cosí colpisce il fulmine, cosí colpisce un coltello a serramanico! Del resto, lei affermava in seguito che non era cosí, che ci amavamo da molto tempo pur senza esserci mai visti, e pur vivendo lei con un altro… e io, allora… con quella, come si chiama.

— Con chi? — chiese Bezdomnyj.

— Con quella, ma sí… quella… mm… — rispose l’ospite schioccando le dita.

— Lei era sposato?

— Ma sí, perché crede che schiocchi le dita?… Con quella… Varen’ka… Manecka… no, Varen’ka… il vestito a strisce, il Museo… Ma non ricordo.

Ebbene, lei diceva che con quei fiori gialli in mano era uscita, quel giorno, perché io la potessi finalmente incontrare, e che se questo non fosse avvenuto, si sarebbe avvelenata, poiché la sua vita era vuota.

Sí, l’amore ci colpí in un baleno. Lo sapevo già, quel giorno, dopo un’ora, mentre eravamo, senza accorgerci dell’esistenza della città, sul lungofiume sotto le mura del Cremlino.

Parlavamo come se ci fossimo lasciati il giorno prima, come se ci conoscessimo da molti anni. Ci accordammo per trovarci l’indomani nello stesso posto, sulla Moscova, e ci incontrammo. Il sole di maggio splendeva per noi. Ben presto, quella donna divenne la mia moglie segreta.

Veniva da me quotidianamente, di giorno, e ad aspettarla io cominciavo sin dal mattino. Questa attesa si manifestava col fatto che spostavo gli oggetti sul tavolo. Dieci minuti prima mi sedevo vicino alla finestra e mi mettevo in ascolto, aspettando che il vecchio cancello sbattesse. È strano: prima che la incontrassi, poca gente veniva nel nostro cortiletto, anzi, non veniva mai nessuno, mentre adesso mi sembrava che tutta la città vi si precipitasse. Sbatteva il cancello, batteva il mio cuore, e, si figuri, dietro il finestrino al livello del mio viso, appariva immancabilmente un paio di stivali sporchi. L’arrotino. Ma chi aveva bisogno di un arrotino nella nostra casa? Arrotare che cosa? Quali coltelli?

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