Mikhail Bulgakov - Il Maestro e Margherita
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Lei entrava una sola volta dal cancello, ma io avevo provato il batticuore almeno dieci volte, non dico una bugia. Poi, quando giungeva la sua ora e le lancette indicavano mezzogiorno il batticuore continuava finché senza tacchettio quasi silenziose, davanti alla finestra non mi passavano le scarpe con un nodo di camoscio nero, stretto da una fibbia d’acciaio.
A volte scherzava, e fermandosi davanti alla seconda finestra, bussava al vetro con la punta della scarpa. Nello stesso istante io mi ritrovavo davanti a quella finestra, ma la scarpa scompariva, scompariva la seta nera che velava la luce, e io correvo ad aprirle.
Nessuno sapeva del nostro legame, glielo garantisco, anche se questo non succede mai. Non lo sapeva suo marito, non lo sapevano i conoscenti. Nella vecchia casetta dove possedevo quello scantinato, naturalmente, sapevano, vedevano che mi veniva a trovare una donna, ma non ne conoscevano il nome.
— E chi è? — chiese Ivan, interessato in sommo grado a quella storia d’amore.
L’ospite fece un gesto a significare che non l’avrebbe mai detto a nessuno, e continuò il suo racconto.
Ivan seppe che il Maestro e la sconosciuta si amavano talmente che divennero assolutamente inseparabili. Ivan ora si immaginava con chiarezza le due camere dello scantinato della casetta, dove regnava sempre il crepuscolo a causa del lillà e della palizzata. I logori mobili di mogano, lo scrittoio con l’orologio che suonava ogni mezz’ora, e libri, libri, che andavano dal pavimento di legno lucido fino al soffitto annerito dal fumo, e la stufa.
Ivan apprese che, sin dai primi giorni della loro relazione, il suo ospite e la moglie segreta erano venuti alla conclusione che a farli incontrare all’angolo della Tverskaja con il vicolo era stato il destino, e che erano stati creati eternamente l’uno per l’altra.
Dal racconto dell’ospite, Ivan apprese anche come gli innamorati trascorressero le loro giornate. Appena arrivava, lei s’infilava un grembiule, e nello stretto ingresso, dove si trovava il lavandino di cui il povero malato era tanto fiero, accendeva sul tavolo di legno il fornellino a petrolio, preparava la colazione e la serviva nella prima stanza sul tavolo ovale. Quando scoppiavano i temporali di maggio e davanti alle finestre poco luminose l’acqua scorreva rumorosa nel portone minacciando di inondare l’ultimo rifugio, gli innamorati accendevano la stufa e vi facevano cuocere le patate nella cenere. Dalle patate si alzavano nubi di vapore, la buccia nera sporcava loro le dita. Nello scantinato si udivano risate e nel giardino gli alberi, dopo la pioggia, si scrollavano di dosso i ramoscelli spezzati e grappoli di fiori bianchi.
Quando finirono i temporali e giunse l’afosa estate, nel vaso apparvero le rose, tanto attese e amate da entrambi. Colui che si chiamava Maestro lavorava febbrilmente al suo romanzo, e questo romanzo assorbí anche la sconosciuta.
— Davvero, a volte ne ero geloso, — sussurrava l’ospite notturno arrivato dal balcone illuminato dalla luna.
Con le dita sottili dalle unghie appuntite affondate nei capelli, essa rileggeva senza fine la parte già scritta, e dopo averla letta, cuciva quel berretto. A volte si accoccolava accanto agli scaffali inferiori, oppure stava ritta presso quelli superiori, e con uno straccio spolverava centinaia di libri. Gli annunciava la gloria, lo spronava, e fu allora che cominciò a chiamarlo Maestro. Aspettava con impazienza le ultime parole già promesse sul quinto procuratore della Giudea, ripeteva a voce alta, cantilenando, singole frasi che le piacevano, e diceva che in quel romanzo c’era la sua vita.
Fu terminato in agosto e consegnato a una dattilografa sconosciuta che lo batté in cinque copie. Infine giunse l’ora di abbandonare il rifugio segreto e di entrare nella vita.
— Entrai nella vita, col romanzo in mano, e fu allora che la mia vita finí, — sussurrò il Maestro chinando il capo, e a lungo ondeggiò quel mesto berretto nero con la lettera gialla «M». Riprese il suo racconto, ma questo divenne cosí sconclusionato che Ivan poté capire solo che all’ospite era successa una catastrofe.
— Capitavo per la prima volta nel mondo della letteratura, ma ora che tutto è finito e che la mia rovina è un fatto compiuto, lo ricordo con orrore! — sussurrò solennemente il Maestro e alzò la mano. — Sí, mi colpí profondamente, oh, come mi colpí!
— Chi? — sussurrò Ivan con una voce appena percettibile, temendo di interrompere l’eccitato narratore.
— Il direttore della rivista, le sto dicendo, il direttore! Sí, lo. lesse. Mi guardava come se avessi una guancia gonfia per un ascesso, sbirciava un angolo e ridacchiava persino con imbarazzo. Spiegazzava senza una ragione il manoscritto e tossicchiava. Le domande che mi faceva mi sembrarono pazzesche. Senza dir niente, in sostanza, sul romanzo, mi chiese chi fossi e da dove venissi, se scrivessi da molto tempo e perché non avessero mai parlato di me prima; mi fece perfino una domanda, secondo me, assolutamente idiota; chi mi aveva suggerito di scrivere un romanzo su un soggetto cosí strano? Alla fine mi stufò, e gli chiesi a bruciapelo se intendeva o no pubblicare il libro. Cominciò allora a dimenarsi, a balbettare qualcosa e dichiarò che non poteva prendersi la responsabilità di una decisione e che altri membri della redazione avrebbero dovuto leggere il mio lavoro, e precisamente i critici Latunskíj e Ariman, e il letterato Mstislav Lavrovič, Mi pregò di tornare dopo due settimane. Lo feci, e fui accolto da una ragazza che aveva gli occhi strabici a furia di mentire.
— È la Lapšennikova, segretaria di redazione, — disse sghignazzando Ivan, che conosceva molto bene quel mondo descritto con tanta ira dal suo ospite.
— Può darsi, — lo interruppe l’altro, — ebbene, mi restituí il mio romanzo, piuttosto stazzonato e unto. Cercando di fare in modo che i suoi occhi non incontrassero i miei, la Lapšennikova mi comunicò che la redazione aveva i programmi al completo per i due anni successivi, per cui il problema della pubblicazione del mio romanzo, come si espresse lei, «veniva meno».
— Che altro ricordo dopo? — mormorava il Maestro fregandosi le tempie. — Sí, i petali rossi caduti sulla prima pagina, e gli occhi della mia compagna. Sí, quegli occhi li ricordo.
Il racconto dell’ospite diventava sempre più confuso, sempre piú pieno di reticenze. Parlava di una pioggia che cadeva a sghembo e di disperazione nell’ospitale scantinato, ricordava di essersi recato in un posto. Sussurrava con voce rotta che non accusava affatto colei che lo aveva spinto alla lotta, no, non l’accusava!
Poi, come ebbe a udire Ivan, successe qualcosa di improvviso e strano. Un giorno l’autore aprí un giornale e vi trovò un articolo del critico Ariman, intitolato Un attacco del nemico, dove questi avvertiva ogni lettore che lui, cioè il nostro eroe, aveva fatto il tentativo di far passare un’apologia di Gesú Cristo.
— Ah sí, ricordo, ricordo! — esclamò Ivan. — Ma ho dimenticato il suo nome!
— Ripeto: lasciamolo stare, non ho piú nome, — rispose l’ospite. — Non si tratta di questo. Il giorno successivo, in un altro giornale apparve, a firma di Mstislav Lavrovič, ancora un articolo in cui l’autore proponeva di colpire, e di colpire forte, il pilatismo e il baciapile che aveva avuto l’idea di farlo passare (di nuovo quella maledetta espressione!)
— Rimasto di stucco per l’inaudita parola «pilatismo», aprii un terzo giornale. Qui vi erano due articoli: uno di Latunskij, l’altro firmato con la siglia «N. E.». Le assicuro che i parti critici di Ariman e di Lavrovič potevano essere considerati uno scherzo in confronto a quello che aveva scritto Latunskij. Le basterà sapere che il suo articolo era intitolato Un vecchio credente bellicoso. Ero talmente preso dalla lettura di questi articoli dedicati alla mia persona che non mi accorsi (avevo dimenticato di chiudere la porta) come lei mi sorse davanti con in mano l’ombrello bagnato, e i giornali, pure bagnati. I suoi occhi lanciavano fiamme, le mani le tremavano ed erano fredde. Prima si slanciò a baciarmi, poi con voce rauca, dando un pugno sul tavolo, disse che avrebbe avvelenato Latunskij.
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