Mikhail Bulgakov - Il Maestro e Margherita

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Un magro vetturino baffuto arrivò di volo presso la prima donna svestita e arrestò di colpo l’ossuto e sfinito cavallo. Il volto del baffone ghignava di gioia.

Rimskij si diede un pugno in testa, sputò e balzò via dalla finestra. Rimase per un po’ seduto presso la scrivania, ascoltando i rumori che provenivano dalla via. In vari punti, i fischi raggiunsero un massimo d’intensità, poi scemarono. Con sua sorpresa, lo scandalo fu liquidato con inaspettata rapidità.

Era giunto il momento di agire, occorreva vuotare l’amaro calice della responsabilità. Gli apparecchi telefonici erano stati riparati durante la terza parte dello spettacolo, bisognava telefonare, comunicare quanto era accaduto, chiedere aiuto, raccontar storie per scagionarsi, buttare la colpa di tutto su Lichodeev, metter fuori causa se stesso e cosí via. Corpo del diavolo!

Per due volte, lo scombussolato direttore pose la mano sul ricevitore e per due volte la tolse. All’improvviso, nel morto silenzio dell’ufficio, fu l’apparecchio stesso a prorompere in uno squillo in faccia al direttore, che sussultò e si sentí gelare. «Ho i nervi a pezzi!» pensò staccando il ricevitore. Se ne scostò immediatamente e diventò piú bianco di un foglio di carta. Una voce femminile sommessa, ma nello stesso tempo insinuante e lasciva, aveva sussurrato:

— Non telefonare, Rimskij, saranno guai…

Subito dopo il ricevitore tacque come morto. Sentendo un formicolio nella schiena, il direttore finanziario lo posò e diede un’occhiata alla finestra che si trovava alle sue spalle. Attraverso i rami dell’acero, radi e appena coperti di verde, vide la luna che correva in una nuvoletta diafana. Con lo sguardo fisso, Rimskij guardava i rami, e piú li guardava, piú forte lo afferrava la paura.

Facendo uno sforzo su se stesso, si distolse finalmente dalla finestra rischiarata dalla luna e si alzò. Neanche da pensarci, oramai, a telefonare: l’unico suo pensiero era di lasciare al piú presto il teatro.

Tese l’orecchio: l’intero edificio taceva. Rimskij capí che da tempo era rimasto solo al primo piano, e a questo pensiero un terrore infantile e insormontabile s’impadroní di lui. Non poteva pensare senza fremere, che gli sarebbe toccato attraversare da solo i corridoi deserti e scendere le scale. Con un gesto febbrile, afferrò dal tavolo le banconote dell’ipnotizzatore, le nascose nella cartella e tossí per darsi almeno un briciolo di coraggio. Il colpo di tosse riuscí debole e rauco.

Gli sembrò ora che da sotto la porta dell’ufficio giungesse all’improvviso un umido miasma. Un brivido corse per la sua schiena. Per di piú, l’orologio prese inaspettatamente a suonare e batté la mezzanotte. Perfino questo rintocco gli mise addosso un tremito. Ma il cuore gli s’arrestò definitivamente quando udí la chiave girare adagio adagio nella toppa della serratura di sicurezza. Avvinghiando la cartella con mani umide e fredde, il direttore finanziario sentí che se quel fruscio nella serratura fosse continuato ancora un attimo, non avrebbe resistito e si sarebbe messo a urlare.

Finalmente la porta cedette agli sforzi, si spalancò, e nell’ufficio entrò silenziosamente Varenucha. Rimskij cadde a sedere sulla poltrona perché gli si piegarono le gambe. Aspirò aria nel petto, fece un sorriso che aveva un che di servile e proferí piano:

— Dio, come mi hai spaventato…

Sí, quell’apparizione improvvisa avrebbe potuto spaventare chiunque, e tuttavia era, al tempo stesso, una grande gioia: era spuntato almeno un capo di quell’imbrogliata matassa.

— Su, di’ presto! Su! Su! — rantolò Rimskij afferrando quel filo. — Che significa tutta questa storia?

— Scusami, per favore, — disse con voce sorda il nuovo venuto, chiudendo la porta. — Credevo tu fossi già andato via.

E, senza togliersi il berretto, Varenucha si avvicinò alla poltrona e sedette dall’altra parte della scrivania.

Bisogna dire che nella risposta di Varenucha s’intuiva una leggera stranezza che punse subito il direttore finanziario, la cui sensibilità non temeva il confronto con i sismografi dei piú moderni centri scientifici del mondo. Come sarebbe a dire? Perché Varenucha era venuto nell’ufficio del direttore finanziario se supponeva che lo stesso non ci fosse? Anzitutto, aveva un ufficio suo. In secondo luogo, da qualsiasi ingresso Varenucha fosse entrato in teatro, avrebbe dovuto inevitabilmente incontrare uno degli inservienti notturni ai quali era stato detto che Grigorij Danilovič si sarebbe trattenuto per un po’ di tempo nel suo ufficio. Ma il direttore finanziario non stette a riflettere a lungo su questa stranezza: aveva ben altro per la testa.

— Perché non hai telefonato? Che significa tutto quel pasticcio con Jalta?

— Be’, è come te lo dicevo io, — rispose l’amministratore, facendo schioccare la bocca come se tormentasse un dente cariato. — L’hanno trovato in una trattoria di Puškino.

— Di Puškino?! Quello vicino a Mosca! E i telegrammi da Jalta?

— Che Jalta d’Egitto! Ha fatto bere il telegrafista di Puškino, e si sono messi a fare gli stupidi: tra l’altro a mandare telegrammi con «Jalta» come luogo di spedizione.

— Aha, aha… bene, bene… — non disse ma cantilenò Rimskij. I suoi occhi si accesero di una luce giallina. Nella sua testa si compose il quadro festoso della vergognosa destituzione di Stepa. Liberazione! La tanto attesa liberazione di Rimskij da quel malanno che era Lichodeev! E magari a Stepan Bogdanovič sarebbe toccato qualcosa di peggio di una destituzione… — I particolari! — chiese Rimskij, picchiando il fermacarte sul tavolo.

Varenucha cominciò a raccontare i particolari. Non appena era giunto nel luogo dove lo aveva inviato il direttore finanziario, era stato immediatamente ricevuto e ascoltato con la piú viva attenzione. Nessuno, s’intende, voleva nemmeno prendere in considerazione la possibilità che Stepa fosse a Jalta. Tutti avevano accolto subito il suggerimento di Varenucha che Lichodeev doveva naturalmente trovarsi al Jalta di Puškino.

— Dov’è adesso? — Lo interruppe l’emozionato direttore.

— Dove vuoi che sia? — rispose l’amministratore con un sorriso forzato. — In guardina a smaltire la sbornia, per forza!

— Accidenti! questa sí che è bella!

Varenucha continuò il suo racconto, e piú raccontava, piú vistosa si svolgeva davanti agli occhi del direttore finanziario la catena lunghissima delle villanate e delle indecenze commesse da Lichodeev, e ogni anello di questa catena era peggiore del precedente. Anche solo la danza ebbra, abbracciato al telegrafista, sull’aiuola davanti all’ufficio telegrafico di Puškino al suono di un organetto vagabondo! L’inseguimento di certe signore che strillavano dallo spavento! La tentata rissa col barista del Jalta! Le cipolline verdi sparse sul pavimento nella stessa trattoria. La rottura di otto bottiglie di Aj-Danil’ bianco secco. Lo sconquasso del tassametro di un tassí, il cui autista non voleva cedere la macchina a Stepa. La minaccia di arrestare le persone che cercavano di porre fine alle porcherie di Stepa… Insomma, roba da far rizzare i capelli!

Stepa era ben noto negli ambienti teatrali di Mosca, e tutti sapevano che non era uno stinco di santo. Però quello che di lui raccontava l’amministratore era troppo perfino per Stepa. Sí, troppo, troppissimo…

Gli occhi pungenti di Rimskij trafiggevano, al di sopra della scrivania, il volto dell’amministratore, e piú questi parlava, piú quegli occhi s’incupivano. Piú diventavano vivi e coloriti gli ignominiosi particolari di cui l’amministratore infiorava la sua narrazione, meno il direttore finanziario prestava fede al narratore. Quando poi Varenucha comunicò che Stepa era giunto al punto di opporre resistenza a quelli che erano arrivati per riportarlo a Mosca, il direttore finanziario sapeva fermamente che tutto ciò che gli stava raccontando l’amministratore tornato a mezzanotte era una menzogna! Menzogna dalla prima all’ultima parola!

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