Per prudenza, rimase tutto il giorno appollaiato sul suo rifugio. Verso sera, quando fu abbastanza sicuro di non fare cattivi incontri, scivolò giù dalla colonna, guardandosi attorno cento volte prima di fare un passo. Quando fu a terra, le sue zampe posteriori avrebbero subito voluto mettersi a correre, ma ecco di nuovo, nella zampa destra davanti, quel fastidioso prurito.
— Ci risiamo, — borbottò Zoppino, — per liberarmi da questo prurito mi toccherà scrivere da qualche parte qualcosa di spiacevole per rè Giacomone. Si vede che a nascere sui muri non si può fare a meno di passar la vita scarabocchiando a destra e a sinistra. Qui d'altra parte non vedo muri. Toh, scriverò lassù.
E proprio sulla lama della ghigliottina, col gesso rosso della sua zampina, scrisse un nuovo messaggio a rè Giacomone, così formulato:
È LA PURA VERITÀ LA PELATA DI SUA MAESTA!
Il prurito era passato, ma Zoppino osservò con preoccupazione che la sua zampa si era accorciata di qualche millimetro.
— Mi manca già una zampa, — borbottò, — se ne consumerò un'altra a fare lo scrittore, con che cosa camminerò?
— Per intanto, — disse una voce alle sue spalle, — ti aiuterò io. Fosse stato solo per la voce, Zoppino avrebbe anche potuto darsi alla fuga. Ma la voce aveva due buone braccia e solide mani, che lo fecero prigioniero senza scampo. Le braccia, le mani e la voce appartenevano a una signora piuttosto avanti negli anni, alta quasi due metri, secca e severa.
— Zia Pannocchia!
— Proprio io, — sussurrò la vecchia signora, — e tu verrai con me. Ti insegnerò a portar via la cena ai miei gatti, e a scarabocchiare col gesso sui muri.
Zoppino si lasciò avvolgere senza protestare nel mantello di zia Pannocchia: tanto più che, sul portone della reggia, erano apparsi alcuni gendarmi.
«Meno male che zia Pannocchia è arrivata per prima, — pensò, — meglio nelle sue mani che in quelle di Giacomone».
Qui Zoppino senza esitare insegna ai gatti a miagolare
Zia Pannocchia si portò a casa Zoppino e lo cucì a una poltrona. Proprio, lo cucì con ago e filo, come se fosse stato un disegno da fissare su una tovaglia per ricamarla, e prima di spezzare il filo ci fece un doppio nodo perché la cucitura non si sciogliesse.
— Zia Pannocchia, — disse Zoppino, prendendosela allegramente, — avrebbe potuto almeno scegliere un filo blu che si sarebbe intonato
meglio col mio colore. Questo filo arancione è un orrore: mi ricorda la parrucca di Giacomone.
— Non è di parrucche che dobbiamo parlare, — rispose zia Pannocchia, — e l'importante è che tu stia fermo e non mi scappi come l'altra sera. Tu sei una bestia rara, e da te mi aspetto grandi cose.
— Non sono che un gatto, — disse modestamente Zoppino.
— Sei un gatto che miagola: di questi tempi se ne vedono pochi, anzi non se ne vedono affatto. I gatti si sono messi ad abbaiare come cani, e naturalmente ci riescono male, perché non sono nati per quello.
Io amo i gatti, non i cani. Ne ho sette in casa. Dormono in cucina, sotto il lavandino. Ogni volta che aprono bocca mi viene voglia di cacciarli via. Ho provato cento volte a insegnar loro a miagolare, ma non mi danno retta. Non si fidano di me.
Zoppino cominciava a provare simpatia per quella vecchia signora, che senza parere lo aveva salvato dalle guardie, e che aveva in uggia i gatti che abbaiano.
— Comunque, — prosegui zia Pannocchia, — ai gatti ci penseremo domani. Questa sera abbiamo altro da fare.
Si avvicinò ad un piccolo scaffale e ne tolse un libro, di cui mostrò il titolo a Zoppino: «Trattato sulla pulizia».
— E ora, — annunciò zia Pannocchia accomodandosi su una poltrona in faccia a Zoppino, — te ne darò lettura dal primo all'ultimo capitolo.
— Quante pagine sono, zietta?
— Non molte: appena ottocentoventiquattro, compreso l'indice, del quale ti farò grazia. Capitolo primo: perché non bisogna scrivere il proprio nome sui muri. Il nome è una cosa preziosa, non è da buttar via. Fate un bel quadro, e potrete apparvi la vostra firma. Scolpite una bella statua, e il vostro nome starà bene sul piedistallo. Fabbricate una bella macchina, e avrete diritto a chiamarla col vostro nome. Solo le persone che non fanno nulla di buono e non hanno un posto migliore per metterci il loro nome lo vanno a mettere sui muri…
— Sono d'accordo, — proclamò Zoppino. — Difatti io non ho scritto il mio nome sui muri, ma quello di rè Giacomone.
— Silenzio e ascolta. Capitolo secondo: perché non bisogna scrivere sui muri il nome dei propri amici…
— Ho un solo amico, — disse Zoppino. — Anzi, l'avevo e l'ho perduto.
Questo capitolo non lo voglio ascoltare perché mi mette la malinconia…
— Dovrai ascoltarlo per forza, perché di lì non ti puoi muovere.
In quel momento trillò il campanello e zia Pannocchia si alzò per andare ad aprire.
Entrò una bimba sui dieci anni: che era una bimba lo si poteva capire dal ciurlo di capelli «a coda di cavallo» che portava sulla nuca; per il resto, poteva anche essere un maschietto, perché indossava un paio di pantaloni da cowboy e una camicia a scacchi.
— Romoletta! — esclamò Zoppino, al colmo della sorpresa. La bimba lo guardò pensierosa.
— Dove ci siamo conosciuti?
— Ma come, — continuò Zoppino. — Si potrebbe quasi dire che sei la mia mamma. Il mio colore non ti ricorda niente?
— Mi ricorda, — rispose Romoletta, — un pezzetto di gesso che una volta presi in prestito dal cassetto della lavagna, a scuola.
— In prestito? — domandò zia Pannocchia. — E la maestra lo sapeva?
— Non ho fatto in tempo a dirglielo, — spiegò Romoletta. — È suonato subito il campanello di mezzogiorno.
— Benissimo, — disse Zoppino, — si potrebbe quasi dire che io sia figlio di quel gessetto. Per questo, anzi, sono un gatto istruito: parlo, leggo, scrivo e faccio di conto. Certo, ti sarei riconoscente se tu mi avessi disegnato con tutte e quattro le zampe. Ma anche così sono contento.
— Sono contenta anch'io di rivederti, — sorrise Romoletta. — Chissà quante cose avrai da raccontarmi.
— Qui tutti sono contenti, — intervenne zia Pannocchia, — meno io. A quanto pare avete bisogno tutti e due di imparare quello che c'è scritto nel mio libro. Romoletta, siediti lì.
La bimba avvicinò una poltrona alle altre e ci si accovacciò, tirandoci su anche i piedi dopo aver lanciato lontano le scarpe. Zia Pannocchia riprese la lettura al capitolo terzo, che spiegava perché non bisogna scrivere sui muri insulti ai passanti.
Zoppino e Romoletta l'ascoltavano con grande attenzione: Zoppino perché era legato, e non poteva fare altrimenti; Romoletta, invece, con una cert'aria furba della quale comprenderete ben presto il significato.
Giunta al decimo capitolo zia Pannocchia cominciò a sbadigliare. Dapprincipio sbadigliava un paio di volte per pagina, poi gli sbadigli si fecero via via più frequenti: tre per pagina, quattro, poi uno ogni due righe… uno ogni riga… uno ogni parola… Infine ci fu uno sbadiglio più lungo degli altri, e quando la bocca si richiuse, si chiusero contemporaneamente anche gli occhi della buona signora.
— Fa sempre così, — spiegò Romoletta, — a metà del libro si addormenta.
— E adesso dovremo aspettare che si svegli? — domandò Zoppino. — Mi ha cucito tanto stretto che se mi venisse da sbadigliare non potrei allargare la bocca. Inoltre, ho fretta di mettermi in cerca di un amico che non vedo da ieri sera.
— Ci penso io, — disse Romoletta.
Con un paio di forbicine, delicatamente e senza far rumore, recise i fili. Zoppino si stirò, saltò a terra per sgranchirsi le zampe e respirò di soddisfazione.
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