Gianni Rodari - Gelsomino nel paese dei bugiardi

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Gelsomino nel paese dei bugiardi: краткое содержание, описание и аннотация

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In un paese, dove per ordine del sovrano tutto funziona al contrario e è proibito dire la verità, arriva Gelsomino dalla voce potentissima che con l'aiuto di simpatici amici sconfigge la prepotenza e fa trionfare la sincerità. In questo libro (uno dei primi) Rodari dà prova della sua straordinaria capacità di esplorare con occhio critico la realtà sociale e di muovere con brio e finezza di stile verso un universo fantastico costruito sull'altruismo, sulla generosità, sull'amicizia: Gelsomino con la sua voce e la sua simpatia ci invita a guardare con ottimismo al futuro. Età di lettura: da 6 anni.

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— Canta!

— Non sarebbe meglio aprire le finestre? — domandò timidamente Gelsomino.

— No, no, non voglio disturbare il vicinato.

— Che cosa devo cantare?

— Quel che vuoi: una canzoncina del tuo paese.

Gelsomino cominciò una canzoncina del suo paese. Si sforzava prudentemente di cantare con un fil di voce, e teneva gli occhi fissi sui vetri delle finestre che vibravano pericolosamente e parevano sul punto di scoppiare.

I vetri non si ruppero, ma all'inizio della seconda strofa andò in pezzi il lampadario e la sala rimase al buio.

— Benissimo! — gridò il maestro Domisol, accendendo una candela. — Magnifico! Meraviglioso! Sono trent'anni che in questa stanza cantano dei tenori, e nessuno è mai riuscito a rompere una tazzina da caffè.

All'inizio della terza strofa i vetri delle finestre fecero la fine che Gelsomino temeva. Il maestro Domisol abbandonò il pianoforte per correre ad abbracciarlo.

— Ragazzo mio! — gridava, piangendo d'entusiasmo. — Questa è la prova che non mi sbagliavo. Tu sarai il più grande cantante di tutti i tempi! La folla staccherà le ruote della tua automobile per portarti in trionfo!

— Ma io non ho automobile, — disse Gelsomino.

— Ne avrai dieci, ne avrai una nuova per ogni giorno dell'anno! Ringrazia il cielo di aver incontrato il maestro Domisol! Avanti, canta un'altra canzone!

Gelsomino cominciava a provare una certa commozione. Era la prima volta che qualcuno lo lodava per il suo canto: egli non era superbo, ma le lodi fanno piacere a tutti. Cantò dunque un'altra canzone, e questa volta lasciò un poco più libera la voce. Soltanto un pochino, per un acuto o due. Ma tanto bastò per far succedere un finimondo.

I vetri del vicinato andavano in pezzi l'uno dopo l'altro. La gente si affacciava spaventata alle finestre.

— Il terremoto! Aiuto, aiuto! Si salvi chi può!

Correvano, con sibili laceranti, le auto dei pompieri a sirena aperta. Le strade furono rapidamente invase da gente che si dirigeva verso i campi, portando in braccio i bambini addormentati e spingendo carretti carichi di masserizie.

II maestro Domisol non stava più nel vestito per l'entusiasmo.

— Formidabile! Portentoso! Mai visto!

Baciava e ribaciava Gelsomino, corse a prendere una sciarpa per proteggergli la gola dalle correnti d'aria, poi lo fece accomodare in sala da pranzo e gli servì un pasto che sarebbe bastato a sfamare dieci disoccupati.

— Mangia, figliolo, mangia, — gli raccomandava. — Guarda questo pollo: è speciale per rinforzare le note alte. Questo cosciotto di montone è particolarmente indicato per vellutare le note basse. Mangia! Da oggi sei mio ospite. Avrai la camera più bella della casa e ti farò imbottire le pareti, in maniera che tu possa esercitarti a tuo piacere senza farti sentire da nessuno.

Gelsomino, veramente, avrebbe voluto correre a rassicurare il cittadini spaventati o almeno telefonare ai pompieri per evitare loro tante corse inutili. Ma il maestro Domisol non gli diede retta:

— Lascia perdere, figliolo. Dovresti pagare tutti quei vetri rotti e, per adesso, non hai un soldo. Senza contare che potrebbero anche, denunciarti, e se tu finisci in prigione addio carriera musicale.

— E se dovessi provocare dei danni anche a teatro?

Domisol scoppiò a ridere.

— I teatri sono fatti apposta perché i cantanti ci possano cantare. Sono a prova di voce, anzi, a prova di bomba. Tu ora vai a letto, ed io preparerò il manifesto e lo farò subito stampare.

Gelsomino canta in scena, con Domisol, maestro in pena

I cittadini, svegliandosi, trovarono affisso a tutte le cantonate il seguente manifesto:

Questa mattina

(ma non alle ore 48 precise) il pessimo tenore

Gelsominocane tra i cani

reduce dai fiaschi e dai fischi ottenuti

nei principali teatri

d'Europa e d'America non canterà affatto

al Teatro Comunale.

La cittadinanza è pregata di non venire.

I biglietti d'ingresso

non costano nulla.

Il manifesto, naturalmente, andava letto alla rovescia e tutti i cittadini compresero che significava esattamente il contrario di quel che c'era scritto. Al posto di «fiaschi» bisognava intendere «trionfi», e quel «non canterà affatto» significava invece che Gelsomino avrebbe cantato proprio alle ore 48, cioè alle ventuno precise.

L'accenno all'America, per la verità, Gelsomino non ce lo avrebbe voluto:

— In America io non ci sono mai stato, — protestava.

— Appunto, — aveva ribattuto il maestro Domisol, — è una bugia, dunque ci sta benissimo. Se tu fossi stato in America ci sarebbe toccato scrivere che eri stato in Asia. La legge è fatta così. Ma tu non pensare alle leggi, pensa a cantare.

La mattinata, come i nostri lettori sanno già, fu piuttosto movimentata (si era scoperta la famosa frase di Zoppino sulla facciata della reggia). Nel pomeriggio tornò la calma e molto prima delle ventuno il teatro, come scrissero poi i giornali, «era vuoto come H deserto», il che voleva dire che era zeppo da scoppiare.

Il pubblico era accorso in massa, nella speranza di sentire un vero cantante. Il maestro Domisol, infatti, aveva provveduto personalmente, ni fine di riempire il teatro, a far correre voci strepitose sul conto di Gelsomino.

— Portatevi del cotone da mettere nelle orecchie, — dicevano in giro per la città gli agenti di Domisol, — quel tenore è uno strazio e vi farà soffrire le pene dell'inferno.

— Immaginate dieci cani col cimurro che abbaino tutti insieme; ingiungeteci il coro di un centinaio di gatti a cui qualcuno abbia Incendiato la coda; mescolate il tutto con una sirena dei pompieri ed agitate: ecco qualcosa che somiglia alla voce di Gelsomino.

— Insomma, è un mostro?

— Un vero mostro. Dovrebbe cantare negli stagni come i ranocchi, non nei teatri. Anzi, dovrebbe cantare sott'acqua, con qualcuno che gli impedisse di rialzare la testa per respirare e che lo facesse affogare come un gatto arrabbiato.

Questi discorsi andavano interpretati alla rovescia, come tutti i discorsi nel paese dei bugiardi: e ciò vi farà capire perché il teatro, come stavamo dicendo, molto prima delle nove era più pieno di un uovo.

Alle nove in punto fece il suo ingresso nel palco reale Sua Maestà Giacomone Primo, con la parrucca arancione fieramente piantata sulla testa. I presenti si alzarono, gli fecero l'inchino e tornarono a sedere, sforzandosi di non guardare più dalla parte della parrucca.

Nessuno si permise la più lontana allusione all'incidente del mattino: tutti, infatti, sapevano che il teatro era disseminato di spioni pronti a trascrivere sui loro taccuini i discorsi della gente.

Domisol, che aspettava con ansia l'arrivo del sovrano, guardando in platea da un buco del sipario, fece cenno a Gelsomino di tenersi pronto e raggiunse l'orchestra. A un segnale della sua bacchetta scoppiarono le prime note dell'inno nazionale, che cominciava così: "Viva, viva, Giacomone e i capelli color arancione…"

Nessuno si permise di ridere, s'intende. Qualcuno giura che Giacomone, in quel momento, sia lievemente arrossito; ma è difficile credergli, perché Giacomone, per parere più giovane, portava quella sera sul volto uno spesso strato di cipria.

Quando Gelsomino comparve sul palco, gli agenti di Domisol diedero il segnale dei fischi e delle grida:

— Abbasso Gelsomino!

— Ritirati, cane!

— Torna nello stagno, ranocchio!

Gelsomino accolse queste ed altre simili grida con molta pazienza, si schiarì la gola e attese che tornasse il silenzio. Poi attaccò la prima canzone del programma, con la voce più dolce che riuscì a emettere dalla bocca, stringendo le labbra al punto che da lontano pareva perfino che cantasse a bocca chiusa.

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