Gianni Rodari - Gelsomino nel paese dei bugiardi

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Gelsomino nel paese dei bugiardi: краткое содержание, описание и аннотация

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In un paese, dove per ordine del sovrano tutto funziona al contrario e è proibito dire la verità, arriva Gelsomino dalla voce potentissima che con l'aiuto di simpatici amici sconfigge la prepotenza e fa trionfare la sincerità. In questo libro (uno dei primi) Rodari dà prova della sua straordinaria capacità di esplorare con occhio critico la realtà sociale e di muovere con brio e finezza di stile verso un universo fantastico costruito sull'altruismo, sulla generosità, sull'amicizia: Gelsomino con la sua voce e la sua simpatia ci invita a guardare con ottimismo al futuro. Età di lettura: da 6 anni.

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Bananito si era alzato dal suo sgabello, pensando: «Forse ci manca un po' di verde… Sì, si, è proprio quello che ci vuole».

Diede mano ad un tubetto, lo spremette sulla tavolozza e cominciò a distribuire pennellate verdi su tutti i quadri: sulle zampe del cavallo, sui nasi del ritratto, negli occhi di una signora che ne aveva sei, tre per parte.

Poi si ritrasse di qualche passo e socchiuse gli occhi per giudicare l'effetto del suo lavoro.

— No, no, — borbottò, — dev'essere un'altra cosa. I quadri sono brutti come prima.

Zoppino, dal suo osservatorio, non potè udire queste parole, ma vide Bananito crollare il capo tristemente.

«Sfido che non è contento, — pensò Zoppino. — Non vorrei essere nei panni di quella signora con sei occhi se le capitasse un abbassamento di vista: occhiali con sei lenti debbono costare molto cari».

Bananito prese un altro tubetto, lo schiacciò sulla tavolozza e tornò a spennellare un po' dappertutto sui suoi quadri, saltando qua e là per la stanza come una cavalletta.

«Del giallo… — pensava, — sono sicuro che manca un po' di giallo».

«Aiuto, — pensava Zoppino dal canto suo, — adesso fa una frittata generale».

Ma Bananito aveva già gettato a terra tavolozza e pennello, c'era salito coi piedi e li calpestava rabbiosamente, strappandosi i capelli.

«Se continua così, — pensò Zoppino, — si ridurrà la testa pelata come quella di rè Giacomone. Quasi quasi lo vado a consolare. Ma se si offendesse? Ai consigli dei gatti nessuno ha mai dato retta, e del resto sarebbe una cosa difficile, perché la lingua dei gatti non la capisce quasi nessuno».

Bananito ebbe compassione dei propri capelli:

— Basta così, decise, — prenderò un coltello in cucina e farò a pezzi tutti i quadri. Il pezzo più grosso deve essere più piccolo di un coriandolo. Si vede che non sono nato per fare il pittore.

La «cucina» di Bananito era un tavolino in un angolo della soffitta, su cui erano posati un fornello a spirito, un pentolino, una scodella e delle posate. Il tavolino si trovava proprio sotto la finestra e Zoppino dovette nascondersi dietro un vaso di fiori per non essere veduto.

Anche se non si fosse nascosto, però, Bananito, non avrebbe potuto; vederlo perché i suoi occhi erano pieni di lacrime grosse come noci.

«E ora che fa? — si domandava Zoppino. — Prende un cucchiaio? Avrà fame… Ma no, posa il cucchiaio e prende la forchetta. Posa anche quella e afferra il coltello. Comincia a preoccuparmi. Non avrà; mica intenzione di ammazzare qualcuno? Chissà, forse i suoi critici. I In fondo, se i suoi quadri restano tanto brutti, dovrebbe rallegrarsi. I Infatti, quando li esporrà, la gente non potrà dire la verità, tutti dovranno dire che sono capolavori: e lui guadagnerà un pozzo di quattrini».

Mentre Zoppino faceva queste riflessioni, Bananito aveva preso dal cassetto una cote e si era messo ad affilare la lama del coltello.

— Voglio che tagli come un rasoio. Della mia opera non resterà traccia.

«Se ha intenzione di uccidere qualcuno, — pensò Zoppino, — vuol essere ben sicuro che il colpo riesca. Un momento: e se volesse uccidere se stesso? Sarebbe un delitto anche peggiore. Qui bisogna fare qualcosa, assolutamente. Non c'è tempo da perdere. Se le oche romane hanno salvato il Campidoglio, un gatto zoppo può ben salvare un pittore disperato».

E il nostro piccolo eroe si gettò nella stanza con le sue tre zampe miagolando a perdifiato. Nello stesso momento si spalancava la porta e irrompeva nella soffitta, sudato, ansante, coperto di polvere e di calcinacci… indovinate chi?

— Gelsomino!

— Zoppino!

— Che gioia rivederti!

— Ma sei proprio tu, Zoppino mio?

— Per piacere, contami le zampe!

E sotto gli occhi del pittore che era rimasto lì col coltello per aria e con la bocca aperta, Gelsomino e Zoppino si abbracciavano e ballavano per la contentezza.

Per quale combinazione il nostro tenore fosse giunto in cima a quella scala, a spingere proprio quella porta, proprio in quel momento, vi sarà ora spiegato per filo e per segno.

Gelsomino in cantina, con Domisol, maestro in rovina

Gelsomino, forse lo ricorderete, si era addormentato in una cantina su un mucchio di carbone. Come letto, non era davvero comodo, ma quando si è giovani alle comodità non ci si fa caso: i pezzi di carbone che gli pungevano le costole con i loro spigoli non impedirono a Gelsomino di sognare.

Nel bel mezzo del sogno egli cominciò a canticchiare. Tanti hanno l'abitudine di parlare nel sonno: Gelsomino aveva appunto quella di canticchiare. Al risveglio, poi, egli non ricordava nulla. La voce gli giocava quel tiro forse per vendicarsi dei lunghi silenzi a cui Gelsomino la costringeva durante il giorno: per prendersi la rivincita di tutte le volte che il suo padrone l'aveva ricacciata in gola.

Il «sottovoce» di Gelsomino fu però abbastanza forte da svegliare mezza città. I cittadini si affacciavano alle finestre, indignati:

— Ma dove sono le guardie notturne? Possibile che non ce ne sia una per far tacere quell'ubriacone?

Le guardie notturne correvano a destra e a sinistra, ma non vedevano che strade deserte.

Si svegliò anche il direttore del Teatro Comunale, che abitava alla altra estremità della città, una buona decina di chilometri lontano dalla cantina di Gelsomino.

— Che voce straordinaria! — egli esclamò. — Questo sì che è un tenore. Ma chi sarà mai? Ah, se potessi mettergli le mani addosso, come farei presto a riempire il teatro. Quest'uomo potrebbe essere la mia salvezza.

Bisogna sapere, infatti, che da tempo il Teatro Comunale di quella città era in crisi, anzi, sull'orlo del fallimento: nel paese dei bugiardi i cantanti erano rarissimi, e quei pochi credevano fosse loro dovere di stonare. Ed ecco perché. Se cantavano bene, il pubblico gridava: «Cane! Smettila di abbaiare!». Se cantavano male, il pubblico gridava: «Bravo! Bravissimo! Bis!». I cantanti, in generale, preferivano sentirsi dir «bravo» piuttosto che cantar bene.

Il direttore del Teatro si vestì in fretta, scese in istrada e si diresse verso il centro della città, da dove gli sembrava provenisse la voce.

Non sto a raccontarvi quante volte credette di essere arrivato.

— Dev'essere in questa casa, — diceva, — la voce esce da quella finestra lassù, non c'è dubbio.

Dopo un paio d'ore di quella ricerca, morto di stanchezza e sul punto di rinunciare, trovò finalmente la cantina di Gelsomino e potete figurarvi la sua meraviglia quando, alla fioca luce del suo accendisigari, constatò che la voce straordinaria usciva dal petto di un giovanottino addormentato sul carbone.

— Se canta così bene nel sonno, figuriamoci quando sarà sveglio, — concluse il direttore del Teatro, fregandosi le mani. — Quest'uomo è una miniera d'oro e, secondo ogni evidenza, non lo sa. Io sarò il solo minatore, e mi farò una fortuna alle sue spalle.

Svegliò Gelsomino e si presentò:

— Sono il maestro Domisol e ho fatto dieci chilometri a piedi per scovarti. Tu devi assolutamente cantare nel mio teatro, domani sera stessa. Avanti, alzati, andiamo a casa mia a fare una prova.

Gelsomino si provò a rifiutare. Diceva che aveva sonno: il maestro Domisol gli prometteva un letto a due piazze per farlo dormir comodo.

Diceva che non aveva mai studiato musica: il maestro giurava che con la sua voce non c'era bisogno di conoscere le note. La voce, del resto, dentro di lui, si stava già aggrappando a quell'occasione:

— Coraggio. Non volevi diventare un cantante? Accetta: forse sarà il principio della tua fortuna.

Il maestro Domisol pose fine alla discussione afferrando Gelsomino per un braccio e tirandoselo dietro a viva forza. Se lo portò a casa, si mise al piano, cavò un accordo dalla tastiera e ordinò:

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