Zoppino si guardava attorno, in cerca di un qualsiasi riparo per trascorrervi la notte, quando avvertì un certo prurito alla zampa destra.
«Strano, — borbottò fra sé, — che sua maestà mi abbia attaccato le pulci? O sarà stato quel vecchio pirata?»
Ma il prurito non era di quel genere: la zampa, voglio dire, gli prudeva di dentro, non di fuori. Zoppino se la esaminò attentamente ma non vide l'ombra di una pulce.
«Ho capito, — concluse, — dev'essere la voglia di scrivere sui muri. Mi ricordo di aver provato un simile prurito ieri sera, quando grazie a Gelsomino riuscii a sbarcare su questa terra. Lascerò un messaggio a questo rè dei bugiardi».
Si avvicinò cautamente alla facciata della reggia e si accertò che le sentinelle non potessero scoprirlo. Ma le sentinelle, come del resto era giusto in quel mondo alla rovescia, dormivano e russavano. Ogni tanto un caporale d'ispezione passava per accertarsi che non ci fossero sentinelle sveglie.
«Meglio così», si rallegrò Zoppino. E con la sua zampina di gesso rosso, la destra, si capisce, scrisse sul muro della reggia, proprio di fianco al portone principale:
RÈ GIACOMONE HA LA PARRUCCA!
«Questa scritta ci sta bene, — disse dopo averla osservata. — Ora ce ne vorrebbe una anche dall'altra parte del portone».
In un quarto d'ora ripetè la scritta un centinaio di volte, e alla fine era stanco come uno scolaro quando ha terminato di scrivere il suo castigo.
— E adesso, a nanna.
Proprio in mezzo alla piazza si innalzava una colonna di marmo, istoriata con le imprese di rè Giacomone: tutte inventate, naturalmente. Si vedeva Giacomone che distribuiva le sue ricchezze ai poveri. Giacomone che sconfiggeva i nemici, Giacomone che inventava l'ombrello per proteggere i suoi sudditi dalla pioggia.
In cima alla colonna c'era abbastanza spazio perché un gatto con tre sole zampe ci si potesse sdraiare al sicuro da tutti i pericoli, per schiacciarvi un sonnellino. Zoppino vi s'arrampicò, aggrappandosi alle sculture, si accomodò nel bel mezzo del capitello, arrotolò la coda attorno al parafulmine per non cadere e si addormentò ancora prima di chiudere gli occhi.
Prima un discorso sfortunato, poi Zoppino è catturato
All'alba fu svegliato da un fragore di cascata.
«Che ci sia stata un'inondazione mentre dormivo?» si domandò
Zoppino preoccupato. Si sporse dalla colonna e vide la piazza piena di gente che rumoreggiava. Non gli ci volle molto tempo per capire che tutta quella folla si era radunata per leggere il messaggio scritto da lui stesso sulla facciata della reggia:
RÈ GIACOMONE HA LA PARRUCCA!
Nel paese dei bugiardi, la più piccola verità fa più rumore di una bomba atomica. Da tutte le strade giungeva altra gente, richiamata dal chiasso e dalle risate. I nuovi venuti, sulle prime, pensavano che ci fosse una festa:
— Che succede?
— Abbiamo vinto qualche guerra?
— Di più, di più!
— È nato un figlio maschio a Sua Maestà?
— Di più, di più!
— Allora sono state certamente abolite le tasse!
Finalmente anche i nuovi venuti leggevano il messaggio di Zoppino e scoppiavano a ridere. Le grida e le risate svegliarono rè Giacomone nel suo letto e nella sua camicia da notte viola. Il sovrano corse alla finestra, si fregò le mani e si rallegrò:
— Che bellezza! Guardate come mi ama il mio popolo. Sono venuti In massa a darmi la buonanotte. Presto, presto, cortigiani, ciambellani, ammiragli, accorrete, portatemi il manto e lo scettro: voglio andare sul balcone a pronunciare un discorso.
I cortigiani, veramente, erano piuttosto sospettosi.
— Mandiamo prima qualcuno a vedere che cosa è successo.
— Maestà, e se fosse una rivoluzione?
— Macché, non vedete come sono allegri?
— Già, ma perché sono tanto allegri?
— È chiaro: perché tra poco farò un discorso. Dov'è il mio segretario?
— Eccomi, Sire.
Il segretario di rè Giacomone portava sempre sotto il braccio una pesante borsa piena di discorsi pronti per essere pronunciati. Ne aveva di tutte le qualità: istruttivi, commoventi, divertenti, dal primo all'ultimo tutti pieni di bugie. Aprì la borsa e cavò uno scartafaccio di cui lesse il titolo:
— Discorso sulla coltivazione del risotto.
— No, no, niente roba alimentare. A qualcuno può venire in mente di aver fame e mi ascolterà di malavoglia.
— Discorso sull'invenzione del cavallo a dondolo, — lesse ancora il segretario.
— Questo potrebbe anche andare. Tutti sanno che i cavalli a dondolo li ho inventati io. Prima che io diventassi rè i cavalli a dondolo non dondolavano affatto.
— Maestà, ho anche un discorso sul colore dei capelli.
— Magnifico, è quello che ci vuole! — esclamò Giacomone, accarezzandosi la parrucca. Afferrò lo scartafaccio e corse sul balcone.
All'apparizione di Sua Maestà scoppiò qualcosa che poteva essere un grande applauso o una grande risata. Più d'un cortigiano sospettoso giudicò che si trattava di una risata e divenne ancora più sospettoso. Giacomone, invece, prese quel frastuono per un applauso, ringraziò i suoi sudditi con un bel sorriso, e cominciò a leggere il suo discorso.
Non aspettatevi, qui, di poterlo leggere anche voi proprio come fu pronunciato: non ci capireste niente, perché tutte le cose vi erano dette alla rovescia. Io vi tradurrò e riassumerò il significato, fidandomi della memoria di Gelsomino.
Disse dunque all'incirca rè Giacomone:
— Che cos'è una testa senza capelli? Un giardino senza fiori.
— Bravo! — gridò la folla. — È vero! È vero! Quella parola «vero» mise in sospetto anche i cortigiani meno sospettosi. Ma Giacomone continuò tranquillamente il suo discorso:
— Prima che io diventassi rè di questo paese la gente si strappava i capelli per la disperazione. I cittadini diventavano calvi l'uno dopo l'altro, e i parrucchieri restavano disoccupati.
— Bravo! — gridò un cittadino. — Viva i parrucchieri e viva le parrucche!
Giacomone restò un attimo interdetto. Quell'accenno alle parrucche lo turbava nel più profondo del cuore. Tuttavia, cacciando i sospetti, riprese a parlare:
— Cittadini, ora vi dirò perché i capelli colore arancione sono più belli di quelli color verde.
In quel momento un cortigiano, ansante, tirò Giacomone per la manica e gli sussurrò qualcosa all'orecchio.
— Maestà, è successa una cosa terribile.
— Avanti, parla.
— Promettetemi prima che non mi farete tagliare la lingua se vi dirò la verità.
— Promesso.
— Qualcuno ha scritto sui muri che voi portate la parrucca, ed è di questo che la gente ride.
Giacomone, per la sorpresa, si lasciò scappare di mano i fogli del discorso, che scesero ondeggiando sulla folla e finirono in mano ai ragazzini. Se gli avessero detto che la reggia andava a fuoco, egli non si sarebbe infuriato peggio di così. Ordinò di far sgomberare la piazza dai gendarmi.
Poi fece tagliare la lingua al cortigiano che era sceso ad informarsi ed aveva portato la notizia. Il poveretto, nella fretta, aveva chiesto di aver salva la lingua: si era dimenticato che, per aver salva la lingua, doveva chiedere di aver salvo il naso. Così, al massimo, gli avrebbero tagliato il naso, e la lingua gli sarebbe rimasta.
Ma l'ira di Giacomone non era ancora sbollita. In tutto il regno fu subito diffuso un proclama che prometteva centomila talleri falsi a chi avrebbe indicato l'autore dell'offesa recata a Sua Maestà. Nella piazza della reggia, proprio ai piedi della colonna, fu innalzata la ghigliottina, pronta a mozzare la testa all'incauto scrittore.
— Mamma mia! — esclamò Zoppino, ritirandosi sul capitello e tastandosi il collo, — non so come si dice paura nella lingua dei bugiardi, ma se si dice coraggio mi sento molto coraggioso.
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