I tedeschi sparirono dopo sei settimane; eravamo nella zona sud. Le requisizioni continuarono e prima dell’autunno del 1940 diventò impossibile trovare cibo se non quello previsto dalle tessere. Le drogherie si svuotarono, ma prima che questo succedesse ero riuscita a comperare frutta secca, cicoria per sostituire il caffè, sardine, spezie, farina di granturco e detersivi. Le verdure dell’orto, conservate, sarebbero senz’altro durate tutto l’inverno. Ecco come imparai a conservare i POMODORI AU NATUREL
Pelare 14 kg circa di pomodori, tagliarli per il lungo e per il largo e poi tagliare ancora a metà ciascuno dei quattro pezzi. Mettere in una padella a fuoco medio. Aggiungere 200 gr circa di acido salicilico (si può trovare da qualunque buon farmacista). Mescolare bene i pomodori e l’acido. Cuocere bene, mescolando continuamente, ma togliere dal fuoco prima che cominci a bollire. Mettere i pomodori in vasetti. Quando si saranno freddati, versarci sopra un centimetro e mezzo circa di olio per impedire all’aria di entrare. Coprire di carta ogni vasetto: manterrà pulito l’olio che potrà poi servire per cuocere i pomodori. Una ricetta infallibile.
Il nostro orto era il più bello nel raggio di chilometri e chilometri. Ero molto fiera di tutte le verdure che produceva. Il duro lavoro, però, mi stancava moltissimo. All’improvviso ci rendemmo conto di aver fame, ma non dicemmo niente. Fu allora che una notte sognai un vassoio d’argento sospeso per aria, con sopra tre grosse fette succulente di prosciutto. Tutto lì. Quel sogno mi perseguitò per sei mesi, fino a quando si riuscì a organizzare un benedetto mercato nero.
Gli amici venivano a trovarci per bere una tazza di vero tè cinese. Facendo economia, le dieci sterline che alcuni amici ci avevano mandato dagli Stati Uniti nell’estate del 1939 durarono fino alla liberazione. Gertrude Stein mi aveva comperato tutte le sigarette americane che era riuscita a trovare. Non erano molto nutrienti, certo, ma servivano da stimolanti, e ce n’era proprio bisogno, in tempi come quelli. La nostra ospitalità consisteva in due tazze di tè senza zucchero, latte o limone e una sigaretta. Un tetro pomeriggio vidi la buona vedova Roux, che lavorava per noi, dirigersi verso i cancelli con due secchi in mano. Che cosa c’è lì dentro? le chiesi. L’acqua dei piatti per il maiale di mamma Vigne, rispose. Senti, le dissi, dille che se non ci vende almeno un uovo al giorno non le porterai più l’acqua dei piatti per il maiale. Mamma Vigne accettò la proposta e la nostra dieta migliorò considerevolmente. Quell’uovo era manna piovuta dal cielo. Calcolai che di lì a poco le galline avrebbero cominciato a deporre regolarmente, mamma Vigne avrebbe potuto vendermi anche due uova al giorno. Era un pensiero confortante, ma qualche giorno prima di Natale le mie speranze andarono distrutte. Il figlio di mamma Vigne mi disse che avrebbe ammazzato il maiale per le feste. Non avrebbero più avuto bisogno dell’acqua dei piatti, e sua madre ci mandava a dire che non intendeva più venderci un uovo al giorno. Fu un brutto colpo. Forse saremmo riuscite a trovare qualcos’altro.
L’interminabile inverno continuò. Un paio di amici riuscirono a forzare il blocco e a venirci a trovare da Parigi, portando notizie. Ma le notizie più importanti ci venivano da Hubert de R., un amico che faceva parte della Résistance . Veniva in bicicletta dalla Savoia per far colazione con noi. Bisognava in qualche modo soddisfare l’appetito di un uomo robusto che aveva pedalato per quasi trenta chilometri nella neve su strade di campagna. A Hubert piacevano molto i dolci e così un giorno gli preparai quello che battezzai BUDINO DI LAMPONI
Due vasetti di gelatina di lamponi sciolta in un doppio bollitore con 1 tazza e mezza d’acqua e l’aggiunta del succo di mezzo limone e 2 o 3 fogli di gelatina, a seconda delle dimensioni, ammorbiditi in mezza tazza d’acqua. Versare in uno stampo. Quando il composto si sarà freddato, metterlo in frigorifero. Togliere dallo stampo e servire.
Il budino invocava un po’ di panna. Noi anche.
La gelatina era molto rara ma io ne avevo una bella provvista. A Hubert de R. il dolce piacque moltissimo. Seduto vicino al caminetto, dopo colazione, disse: Quel budino è fatto con la gelatina, vero? Dove l’avete trovata? In Savoia non ce n’è. Mia moglie non ne trova più. Mi sorprese che sapesse a cosa serviva la gelatina. Quando se ne andò gliene diedi venti fogli da portare a sua moglie. Mi dimostrò molta più gratitudine di quanta ne giustificasse quel piccolo dono. Solo in seguito ci disse a che cosa gli serviva in realtà la gelatina: ne aveva un bisogno disperato per preparare documenti falsi.
In primavera venimmo a sapere che al di là della vallata, ad Artemarre, il famoso chef B. serviva piatti eccellenti ai suoi vecchi clienti. Gertrude Stein propose subito di festeggiare il mio compleanno con una colazione ad Artemarre. Telefonammo a B. e gli dicemmo che volevamo andare a trovarlo un certo giorno con alcuni nostri amici. Bisognava essere discreti al telefono, come in ogni altra situazione pubblica. Rispose che sarebbe stato felice di rivederci tutti e, come se gli venisse in mente solo in quel momento, chiese quanti saremmo stati. Così stabilimmo che una dozzina di amici ci avrebbero atteso ad Artemarre all’una. Usammo i mezzi di trasporto più svariati e strani. Noi viaggiammo con il dottore e la moglie, nella loro utilitaria (i medici avevano diritto a una certa quantità di benzina), e lui si fermò a visitare i suoi pazienti lungo il tragitto. Cinque dei nostri ospiti arrivarono sul calesse a due ruote dei loro contadini, trascinato da un vecchio ronzino che i tedeschi non si erano degnati di requisire. Altri due amici arrivarono su un calesse in miniatura dipinto in tutti i colori dell’arcobaleno e trainato da un pony Shetland, il tutto comperato di recente e a caro prezzo da una famiglia di girovaghi che avevano incontrato per strada. Gli altri arrivarono in bicicletta o a piedi. Nonostante la tristezza dell’occupazione eravamo felici di rivederci e pregustavamo il festino che B. stava preparando per noi. Eravamo andate a trovarlo in cucina, piacevolmente eccitate dai profumi inconsueti e dal menu che ci aveva presentato. Ecco che cosa ci accingemmo a mangiare:
Aspic di fois gras
Truites en chemise
Piccioni stufati con patatine fritte
Baron di agnello con jardiniére di carote novelle, cipolle, punte di asparagi e fagiolini en barquette
Insalata di tartufi
Torta di fragoline selvatiche
Prima di colazione ci mettemmo a parlare tutti insieme. Avevamo molte cose da dirci, non ci vedevamo da parecchie settimane. Ma appena la colazione fu servita un silenzio di stupore, contemplazione e soddisfazione discese su di noi. È un vero e proprio costume della provincia francese che nessuno parli durante la prima portata. Un’altra caratteristica dei pasti francesi è l’aperta discussione sul cibo servito, che non viene considerata una mancanza di educazione. I francesi considerano invece imperdonabile lasciare qualcosa nel piatto, come facciamo spesso noi americani. E loro hanno la possibilità di servirsi con moderazione la prima volta, dato che il vassoio viene sempre passato una seconda. Dopo il lungo digiuno, indulgemmo in una quantità di cibo probabilmente eccessiva, e con molto piacere. Qualcuno fece notare come i digiuni andrebbero sempre rotti con un bicchiere di succo d’arancia o di pomodoro. Mangiate, bevete, e state allegri, dissi io. Ah, se in quei giorni si fosse potuto esser certi di morire di indigestione! Ci vennero in mente i pacchi di cibo che mandavamo ai prigionieri politici e di guerra e provammo un certo rimorso davanti a quell’abbondante festino, ma prima di accomiatarci ritrovammo la nostra allegria, ringraziammo B. per la colazione sontuosa e delicata, e promettemmo di ritornare presto.
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