Restammo a Saint-Rémy; l’estate era finita, e in autunno il posto era ancora più bello. Quando soffiava il mistral , non solo il cielo diventava più azzurro, ma il paesaggio sembrava rivivere. Un giorno andammo a piedi fino a una cappella gotica. In un campo brullo c’era un solo albero di cachi, molto grosso, privo di foglie e simmetrico, carico di frutti d’oro, stagliato contro il cielo azzurrissimo. Rimane uno dei miei ricordi più belli.
Di giorno e di notte sentivamo i campanelli delle pecore dirette alle colline per il pascolo invernale. Eravamo costrette a prendere sempre le strade più piccole, sulle principali le greggi creavano di continuo barriere insuperabili. Janet, comodamente installata nella sua nuova casa, non riusciva a capire come mai non trovassimo Saint-Rémy assolutamente insopportabile. Alla locanda servivano cibo immangiabile perfino a Natale e a Capodanno. L’unica cosa di prima qualità che la cittadina produceva era la frutta glacé , ma non si poteva certo vivere di quella. La frutta glacé francese è molto diversa dalla nostra, cristallizzata. In Francia lo sciroppo nel quale si fa cuocere la frutta non bolle abbastanza a lungo da cristallizzarsi. A Saint-Rémy c’era una fabbrica (ammesso si possa così definire quel posto piccolissimo e pochissimo pretenzioso) di frutta glacé la cui specialità era il melone pieno di frutta più piccola, ciliegie, albicocche, prugne e pere, delizioso e bellissimo a vedersi. Ce ne mandarono a Parigi fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale. Come tante altre cose buone, questa frutta sparì con la catastrofe.
Man mano che l’inverno avanzava, diventavamo irrequiete. Forse era colpa del mistral che soffiava in continuazione. Era stupido partire prima della primavera. Ma un giorno di marzo, mentre attraversavamo un campo arato, fummo costrette ad ammettere che il clima non era più sopportabile e che sarebbe stato meglio partire subito. Restammo ancora qualche giorno per dare un’ultima lunga occhiata a quei posti che ci dispiaceva tanto lasciare, poi, con Godiva, tornammo a Parigi.
Qual è il primo cibo che ricordate, che magari ricordate di aver visto se non mangiato? Be’, il primo cibo che ricordo io, dagli anni della mia infanzia a San Francisco, all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso, è quello della prima colazione: frumento frantumato con zucchero e panna, granturco macinato con melassa e farina col miele. Subito dopo, ricordo con gran chiarezza le frittelle soufflé , decisamente poco indicate per la dieta di un bambino. Nora, la cuoca di mia madre, per fortuna restò con noi abbastanza a lungo perché anch’io potessi gustare le sue frittelle. Ci lasciò a quasi quarant’anni per sposare un operaio ben pagato e produsse ben cinque o sei figli. Maggie, la bambinaia, andò a trovarla, e tornò con l’incredibile notizia che Nora, la cuoca eccezionale, nutriva tutta la famiglia, compreso il bambino più piccolo, con cibo in scatola. Precorse i tempi. Ecco come si preparano le FRITTELLE SOUFFLÉ DI NORA
Mettere in una casseruola, sul fuoco, 1 tazza d’acqua, mezza tazza di burro e un pizzico di sale. Quando il burro si sarà sciolto e il miscuglio starà per bollire, togliere dal fuoco e versarci velocemente 2 tazze di farina passata al setaccio. Mescolare vigorosamente con un cucchiaio di legno. Cuocere a fuoco lento fino a quando il miscuglio si staccherà dalla casseruola. Versare in una terrina. Lasciar raffreddare per 10 minuti. Poi continuare a sbattere vigorosamente e intanto aggiungere 8 uova, incorporandole alla perfezione una alla volta. Mentre si sbatte il composto, alzarlo il più possibile, per farci entrare molta aria. Non mescolare, ma sbattere metodicamente per circa 20 minuti. Lasciar riposare al fresco, ma non in frigorifero, per 2 o 3 ore. Quando la pastella sarà pronta per l’uso, riscaldare a fuoco medio in una padella olio a sufficienza per friggere. Nel frattempo avrete formato una serie di palline della grandezza di una noce, al cui centro avrete versato mezzo cucchiaino di gelatina di ribes. Aumentare la fiamma. Le frittelle saliranno alla superficie, si gonfieranno, si gireranno e diventeranno color oro senza il vostro aiuto. A questo punto toglietele subito dall’olio, cospargetele generosamente di zucchero a velo e servitele calde.
La mia raccolta di tesori cominciò con i Dolci (torte e gelati, chicche e frittelle), dolci di tanto tempo fa, non a caso. Perché quando si è bambini, sono questi i cibi che piacciono di più. Ecco uno dei miei primi tesori: MELONE ALLA SHERAZADE
Tagliar via una fetta di melone dalla parte del gambo. Scavare la polpa a pezzi della grandezza desiderata, toglierne il più possibile senza rompere il melone. Svuotare il frutto del succo rimasto, tagliare la polpa a cubetti e mescolarne una parte ad altri cubetti di ananas e pesche. Aggiungere alcune fettine di banana, e un po’ di fragole e lamponi interi. Zucchero a piacere. Quando lo zucchero aggiunto alla frutta si sarà sciolto mettere frutta e succo dentro il melone svuotato. Coprire con quattro parti di champagne molto secco, una parte di kirsch, una di maraschino, una di crème de menthe e una di rosolio. Mettere in frigorifero per tutta la notte.
Questo dessert, e una crema bavarese, complicatissima ma dal sapore molto simile, dato che veniva preparata con gli stessi frutti e gli stessi liquori, furono tra i miei primi dolci preferiti. La ricetta del melone alla Sheherazade è conservata nel vecchio quaderno di ricette scritto a mano da mia madre.
Un altro dei primi dolci che ricordo con piacere è ormai noto ai miei amici col nome di BISCOTTI DI ALICE
Setacciare 2 tazze di farina su un’asse infarinata. Avrete bisogno di 2 tazze e mezzo di burro non salato, 6 tuorli d’uovo e 1 tazza di zucchero a velo al quale sia stato aggiunto un baccello di vaniglia pestato e passato al setaccio. Con la punta delle dita lavorare molto delicatamente un sesto di tutti gli ingredienti alla volta fino a ottenere un composto omogeneo. La farina potrebbe non essere sufficiente, e richiedere un’aggiunta, a seconda delle dimensioni dei tuorli delle uova e della qualità del burro. Aggiungerne quanto basta per ottenere un composto solido. Stendere una sfoglia spessa meno di 1 cm. Tagliarla con uno stampino da biscotti non più grande di 5 cm di diametro. Disporre i biscotti su carta apposita e infornare a 150 gradi per circa un quarto d’ora. Non devono colorarsi troppo. Quando saranno cotti toglierli dalla carta con una paletta di metallo, facendo molta attenzione. Sono squisiti, ma fragilissimi. Cospargere generosamente di zucchero a velo passato al setaccio. Riporre in una scatola di latta solo quando si saranno raffreddati. Se la scatola ha un buon coperchio, i biscotti si manterranno freschi per due settimane e più.
La ricetta seguente venne preparata, su mia richiesta, per una colazione di compleanno alla quale avevo invitato alcuni miei compagni di scuola. Porta il nome della cuoca.
CAPPONE ALLA KATIE
Far rosolare un cappone con 6 cucchiai di burro in una pentola smaltata a fuoco medio. Coprire e ridurre la fiamma. Dopo un quarto d’ora aggiungere tre quarti di tazza di acqua calda, tre quarti di tazza di porto caldo, metà della scorza di 1 arancia, 1 cucchiaio di sale, un quarto di cucchiaino di pepe e un pizzico di caienna. Dopo 20 minuti, bagnare di sugo ogni quarto d’ora. Il cappone sarà cotto in tre quarti d’ora. Togliere dalla pentola, disporre su un piatto di portata caldo. Sgrassare e colare il sugo. Rimetterlo sul fornello a fuoco molto lento. Mescolare nella pentola tre quarti di tazza di panna intera. Aggiungere 4 cucchiai di burro. Non far bollire, non mescolare, ma inclinare la pentola in tutte le direzioni. Servire ben caldo. Versare la salsa sul cappone in modo che si mescoli al sugo che ne uscirà quando verrà tagliato. È molto buono anche freddo. Per servirlo freddo bisognerà aggiungere alla salsa, per rendela più densa, un po’ di farina di riso, o di fecola (come si usava a quei tempi per cibi più delicati), e lasciarla raffreddare prima di versarla sul cappone.
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