— Sia lode a Dio, – disse, – arriviamo in tempo. Tutti noi parenti si avea tanta paura... Questo giovane (e qui abbassava la voce) è il figlio del conte. Che momenti terribili!
Ciò detto, si volse al dottore.
— Caro, caro dottore... Questo giovane qui è il figlio... Dite, c’è speranza?
Il dottore alzò gli occhi e le spalle. La Drubezkoi fece lo stesso, strinse forte le palpebre, sospirò, tornò da Piero.
— Abbiate fede, – gli si volse con malinconica e tenera deferenza, – abbiate fede nella misericordia di Dio... Aspettatemi qui.
E indicatogli un divanetto, si diresse con lievi passi alla porta cui tutti gli occhi eran rivolti, la spinse e disparve.
Piero, deliberato ad obbedirle in tutto e per tutto, si avviò al divanetto indicatogli. Sentì subito di esser l’oggetto di una sollecita e rispettosa curiosità. Tutti bisbigliavano, mostrandoselo con occhi tra paurosi e servili. Lo colmavano d’insoliti riguardi. Una signora, che discorreva coi preti, si alzò e gli offrì il posto; un ufficiale raccattò un guanto ch’egli s’era lasciato cadere e glielo porse; i dottori tacquero rispettosi e si tirarono indietro per dargli il passo. Piero volea, dapprima, non disturbar la signora, raccattar da sè il guanto, cansare i dottori che del resto non gli attraversavano niente affatto la via, ma capì che la cosa sarebbe stata una sgarberia, capì che proprio da lui aspettavasi il compimento di chi sa mai qual rito terribile, e che per conseguenza doveva accettare, senza far motto, i servigi di tutti. Pigliò il guanto dall’ufficiale, occupò il posto cedutogli dalla signora, posò le grosse mani sulle ginocchia, e stette così immobile come un idolo, dicendosi che così appunto doveva essere, e che, a non voler commettere scioccherie o sbadataggini, gli bisognava rinunziare a qualunque personale iniziativa e darsi in completa balìa di coloro che lo guidavano.
Di lì a qualche minuto, entrò il principe Basilio, maestoso, eretta la testa, ornato il petto di tre decorazioni. Girò gli occhi intorno, che pareano nella faccia smagrita più grandi del solito. Si accostò a Piero, gli prese la mano (il che non avea fatto mai), e gliela tirò in giù, come per provare se era bene attaccata al polso.
— Siate uomo, amico mio. Ha voluto che vi si chiamasse. Era giusto, doveroso, – e fece atto di allontanarsi.
— E come va, – balbettò Piero trattenendolo, – come va la salute di... del...
Non sapeva se chiamarlo conte o mio padre.
— Ancora un colpo mezz’ora fa. Coraggio, amico mio, siate uomo!
Piero era così confuso, che alla parola colpo , si figurò trattarsi di una percossa. Sbarrò tanto d’occhi, e solo dopo un poco, gli balenò l’idea che il colpo poteva essere una malattia. Il principe Basilio intanto, susurrate due parole al dottore, si avviò in punta di piedi alla porta. Non era buono a camminar così, epperò dondolava e torcevasi con tutto il corpo. Dopo di lui, entrò la principessina maggiore, e sulle orme di lei passarono i preti, i chierici, i servi. Si udì di là dalla porta un movimento, e finalmente ne venne fuori la Drubezkoi, pallida, smarrita, ma più che mai risoluta all’adempimento del suo doloroso dovere. Accostatasi a Piero, lo prese per mano..
— La misericordia del Signore è inesauribile. Comincia l’estrema unzione. Venite, venite...
Piero macchinalmente la seguì, non senza notare che anche l’ufficiale, la signora, ed altri ed altri tra servi ed estranei gli tenevan dietro, come se oramai non ci fosse più bisogno di domandar licenza per entrare in quella camera.
Piero ben conosceva quell’ampia camera a volta, sostenuta da colonne, dalle pareti coperte di tappeti persiani. La parte di là dalle colonne, che aveva a destra un alto letto di mogano con cortine di seta, e a sinistra una custodia vetrata piena d’immagini, era vivamente illuminata, come una chiesa ai vespri della sera. Sotto la custodia, i cui santi dalle vesti d’oro scintillavano per le molte lampade accesevi davanti, stendevasi un lungo seggiolone, e su questo, fra un monte di guanciali candidi, soffici, or ora mutati, nascosto fino alla cintola da una coperta verde, giaceva la ben nota a Piero maestosa figura del padre, del conte Besuhow, dalla spaziosa fronte leonina irta di bianchi capelli, dalla bella faccia ingiallita, solcata di rughe nobili e caratteristiche. Le mani avea fuori della coperta. Nella destra, col palmo in giù, tra il pollice e l’indice, gli avean posto un cero, sostenuto da un servo che curvavasi di sopra la spalliera del seggiolone. Stavano intorno gli ecclesiastici, dalle zazzere prolisse, con in mano ceri accesi. Con solenne lentezza officiavano. Un po’ discosto, le due principessine più giovani si premevano sugli occhi il fazzoletto, e davanti a loro la sorella maggiore, Caterina, in aspetto risoluto e stizzoso, fisi gli occhi nelle immagini, come per dire a tutti che di sè non avrebbe più potuto rispondere, per poco che ne li avesse distratti. Presso la porta, la signora che avea ceduto il posto a Piero, e la Drubezkoi contrita e angosciata. Il principe Basilio, dall’altro lato del seggiolone, appoggiandosi con le braccia sulla spalliera intagliata d’una sedia di velluto, reggeva un cero nella sinistra e con la destra facevasi il segno della croce, alzando gli occhi al cielo ogni volta che portava le dita alla fronte. Aveva impressa in viso una devota rassegnazione alla volontà di Dio. «Se non capite questi sentimenti, tanto peggio per voi» parea che dicesse.
Dietro a lui, l’uffiziale, i dottori, i servi. Come in chiesa, gli uomini erano divisi dalle donne. Tutti tacevano e si segnavano; non si udiva che la cantilena delle preci, un canto cupo e sommesso e, negli intervalli, uno scalpiccio e qualche sospiro. La Drubezkoi, come persona sicura del fatto suo, traversò tutta la camera, si accostò a Piero e gli consegnò un cero. Piero lo accese e, distratto dal guardare intorno, prese a segnarsi con la stessa mano con cui lo reggeva.
La principessina Sofia, rubiconda e gioviale, col neo sul labbro, lo guardava, rideva, nascondeva la faccia nel fazzoletto, la scopriva, tornava a ridere. Non potea fare a meno nè di guardarlo nè di ridere. Per fuggir la tentazione, sgusciò dietro una colonna. A mezzo dell’ufficio religioso, le voci salmodianti tacquero di colpo, i preti si bisbigliarono qualche cosa; il vecchio servo, che sosteneva la mano del conte, si rizzò e si volse alle signore. Si fece avanti la Drubezkoi, e curvatasi sul seggiolone, chiamò a sè con un cenno del dito il dottor Lorrain. Il Francese (che senza candela in mano, se ne stava appoggiato ad una colonna, in un rispettoso atteggiamento, il quale mostrava che egli, straniero e di religione diversa, pure intendeva tutta l’importanza della cerimonia), col passo sforzatamente leggiero di un uomo adulto, si avvicinò, prese fra le dita bianche e lisce il polso del conte, e voltosi in là, stette immobile e intento. Fu somministrata una bevanda all’infermo, gli si affaccendarono intorno, poi tornarono ciascuno al suo posto, e il rito ricominciò. Durante questo intervallo, Piero notò che il principe Basilio uscì di dietro la spalliera della seggiola; e anch’egli come persona che sa il fatto suo, e tanto peggio per gli altri se non lo capiscono, non si avvicinò all’infermo, ma passando oltre, si unì alla principessina Caterina e con lei si diresse in fondo alla camera verso l’alto letto dalle seriche tende. Scostatisi poi dal letto, tutti e due sparirono per un uscio posteriore, ma prima che la cerimonia finisse tornarono, l’una innanzi e l’altro dopo, ai loro posti. Piero non diè a questo incidente maggiore attenzione che agli altri, sempre più deliberato a pensare che quanto in quella sera accadevagli intorno doveva indispensabilmente esser così.
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