Cessarono le salmodie, e si levò la voce del prete, il quale devotamente rallegravasi per l’avvenuta somministrazione del Sacramento. L’infermo giaceva sempre immobile, quasi esanime. Un mormorio gli si levava intorno, e spiccava in esso la voce della Drubezkoi.
Piero la sentì che diceva:
— Bisogna assolutamente trasportarlo sul letto... Qui sarà impossibile...
Così stretto era l’infermo fra i dottori, le nipoti e i servi, che Piero non vedeva più la folta criniera grigia sull’ampia fronte; non un sol momento l’avea perduta di vista, checchè lo distraessero le cose e le persone intorno. Dai movimenti cauti e lenti di quelli che circondavano il seggiolone capì che si sollevava e si trasportava il morente.
— Tienti al mio braccio... Così lo farai cadere! – udì il mormorio spaurito di un servo. – Di sotto... ancora uno, – dicevano altre voci. I fiati affannosi, i passi pesanti divennero più rapidi, come se il peso fosse superiore alle forze dei volenterosi portatori.
Questi – fra cui era la Drubezkoi – passarono davanti al giovane. Per un momento di dietro alle schiene e alle nuche apparvero a lui il petto largo e forte, le spalle poderose sollevate dalle mani concordi che tenevano l’infermo di sotto le ascelle, la grigia testa leonina, dalla fronte spaziosa, dagli zigomi prominenti, dalla bella bocca sensuale, dallo sguardo freddamente altero. Nè già lo deformava la morte imminente. Era la medesima che Piero avea vista tre mesi addietro, quando il conte l’avea mandato a Pietroburgo. Ma dondolava ora abbandonata, secondo i passi ineguali dei portatori; e il freddo sguardo indifferente non sapeva su che fermarsi.
Passarono alcuni minuti di confusione intorno al letto, e i servi si ritirarono. La Drubezkoi toccò Piero sul braccio, ingiungendogli sottovoce: – Andiamo! – Piero si avvicinò al letto, sul quale era disteso l’infermo in posizione di parata, qual’era adatta al Sacramento testè ricevuto. La testa eretta, per un monte di cuscini che la sollevavano, le mani simmetricamente posate col palmo in giù sulla coperta di seta verde. All’avvicinarsi di Piero, il conte lo fisò, ma con quello sguardo il cui senso non è dato all’uomo d’intendere. Diceva forse quello sguardo che finchè si hanno occhi bisogna pur volgerli in qualche parte, o diceva anche troppo. Piero si arrestò, non sapendo che fare, e si volse perplesso alla sua guida. La Drubezkoi gli fè un rapido cenno con gli occhi, indicando la mano del morente, e con le labbra mandò un bacio aereo. Piero protese il collo, si curvò in modo da non toccar la coperta, e appoggiò le labbra sulla mano larga ed ossuta del padre. Nè la mano si mosse, nè un muscolo tremò nella faccia del conte. Di nuovo si volse Piero alla Drubezkoi per consiglio, e questa, sempre con gli occhi, gl’indicò la seggiola accanto al capezzale. Obbediente, egli sedette, interrogando con l’espressione del viso se facea bene o no, e n’ebbe in risposta un cenno di approvazione. Prese allora, come prima avea fatto, l’atteggiamento di un idolo egiziano, rammaricandosi internamente di avere un corpaccione che pigliava troppo posto, e facendo sforzi inauditi per stringersi in sè e parer più piccolo. Guardava al conte. Questi fissava gli occhi in alto, in quel punto dov’era testè il viso di Piero. La Drubezkoi mostravasi pienamente consapevole della gravità di questo estremo incontro tra padre e figlio. Durò questo due minuti, che a Piero parvero un’ora. Di botto, nei muscoli e nelle rughe del viso del conte vi fu un tremito, che via via si fece più forte. La bella bocca si torse (e qui solo capì Piero quanto vicino fosse il padre alla morte), e ne uscì un suono rauco e confuso.
La Drubezkoi ficcava gli occhi nel morente, sforzandosi d’indovinare quel che volesse; accennava ora a Piero, ora alla bevanda; susurrava in tono interrogativo il nome del principe Basilio; indicava la coperta. L’infermo, la cui fisonomia denotava l’impazienza, fece uno sforzo per guardare al servo che non si staccava dal capezzale.
— Vuole esser girato sul fianco, – bisbigliò il servo, e si mosse per voltar con la faccia alla parete il pesante corpo del conte.
Piero si alzò per aiutarlo.
Durante la difficile operazione, una mano dell’infermo penzolò inerte all’indietro, e lo si vide fare un vano sforzo per tirarla a sè. Sia che notasse lo sguardo atterrito che Piero gettò su quella mano senza vita, sia che un altro pensiero gli balenasse nel cervello ottenebrato, certo è che il conte guardò prima a quella sua mano, poi al viso spaurito di Piero, poi da capo alla mano, e gli apparve sulle labbra un sorriso che mal s’accordava all’alterezza dei suoi tratti; un sorriso stanco, angoscioso, quasi un sogghigno beffardo sulla propria impotenza. Alla vista di quel sorriso, Piero sentì un tremore nel petto, un forte pizzicore nel naso, e le lagrime gli offuscarono gli occhi.
L’infermo, voltato sul fianco con la faccia alla parete, trasse un sospiro.
— S’è assopito, – disse la Drubezkoi ad una delle principessine che veniva a darle il cambio. – Andiamo.
Piero uscì.
Nel salotto non c'era più alcuno, eccetto il principe Basilio e la principessina Caterina, seduti sotto il ritratto dell’imperatrice ed impegnati in un vivace colloquio. All’apparire di Piero e della sua guida, tacquero. La principessina nascose in fretta qualche cosa e bisbigliò stizzosa:
— Non la posso soffrire questa donna.
— Caterina ha ordinato che si serva il tè nell’altro salottino, – disse il principe Basilio alla Drubezkoi. – Andate, andate, povera amica mia; prendete un po’ di forza, altrimenti non vi reggerete in gambe.
A Piero non disse verbo; si contentò di stringergli affettuosamente il braccio al di sotto della spalla. Piero e la Drubezkoi passarono nel salottino.
— Non c’è nulla che tanto rinvigorisca, dopo una notte insonne, quanto una tazza di questo squisito tè russo, – disse Lorrain, sorbendo da una diafana tazzolina cinese senza manico. Stava in piedi presso la tavola di mezzo, sulla quale era il servizio da tè con la cena rifredda. Intorno alla tavola s’erano raccolti, appunto per rimettersi in forza, tutti coloro che in quella notte trovavansi in casa Besuhow. Piero ben si rammentava di questo salottino rotondo, dalle pareti a specchi, fornito di piccole tavole. A tempo dei balli in casa del conte, vi si fermava volentieri, non sapendo ballare, ad osservar le signore, che in abiti da ballo, brillanti e perle sulle nude spalle, si miravano al passaggio di quegli specchi luccicanti, che più volte ne riflettevano la figura. Quella medesima stanza era adesso appena rischiarata da due candele, e nel cuore della notte, sopra una piccola tavola, stavano in disordine tazze, piatti e vassoi, mentre una svariata accolta di persone, tutt’altro che festose, discorrevano sommesso, mostrando in ogni atto, in ogni parola, che non una dimenticava quel che accadeva e quel che stava per accadere nella prossima camera da letto. Piero non mangiò, benchè ne avesse gran voglia. Guardò interrogativamente alla sua guida, e la vide che in punta di piedi tornava nella sala precedente, dove erano rimasti il principe Basilio e la principessina. Suppose che così dovesse andar la cosa, e stato un po’ sopra di sè, la seguì. La Drubezkoi stava presso la principessina, e tutte e due parlavano concitate e ad una voce.
— Lasciate a me giudicare quel che è necessario e quel che no, – disse la principessina, che si trovava evidentemente in quella medesima eccitazione di quando avea sbatacchiato la porta.
— Ma, cara principessina, – con fare umile e insinuante rispose la Drubezkoi, attraversandole la via che menava alla camera da letto, – non gli farà forse troppa impressione al povero zio in questi momenti, in cui ha tanto bisogno di riposo? In questi momenti, parlargli d’interessi mondani, quando l’anima sua è già preparata...
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