«Alexandra?» gemette di nuovo.
Lazarus corse alla porta della stanza e si fermò sulla soglia, osservando i segni della lotta e le finestre rotte, abbandonate alla nebbiolina fredda che arrivava dal bosco. Strinse il pugno fino a sentire le unghie che si conficcavano nel palmo della mano.
«Che tu sia maledetto. .»
Poi, asciugandosi il sudore che gli imperlava la fronte, si avvicinò al letto e, con infinita delicatezza, scostò le tende che pendevano dal baldacchino.
«Mi dispiace, cara. .» disse mentre si sedeva al bordo del letto. «Mi dispiace. .»
Un rumore sconosciuto attirò la sua attenzione. La porta della camera oscillava da un lato all'altro.
Lazarus si alzò e si avvicinò cautamente alla soglia.
«Chi è?» chiese.
Non ottenne risposta, ma la porta si fermò.
Lazarus fece qualche passo verso il corridoio e scrutò nell'oscurità. Quando sentì il sibilo su di lui, era già tardi. Un colpo secco alla nuca lo fece stramazzare al suolo, semincosciente. Sentì delle mani che lo prendevano per le spalle e lo trascinavano lungo il corridoio. I suoi occhi riuscirono a catturare una visione fugace: Christian, l'automa che sorvegliava la porta principale. Il suo volto si girò verso di lui.
Un luccichio crudele gli brillava negli occhi.
Poco dopo Lazarus perse i sensi.
Ismael intuì l'arrivo dell'alba dal ritirarsi delle correnti che li avevano sospinti irrimediabilmente all'interno della grotta per tutta la notte. Le mani invisibili del mare allentarono a poco a poco la presa, permettendogli di trascinare un'incosciente Irene verso la parte più alta della caverna, dove il livello delle acque concedeva loro una sacca d'aria. Quando il chiarore che si riverberava sul fondale sabbioso tese un sentiero di pallida luce verso l'uscita della grotta e la marea batté in ritirata, Ismael si lasciò sfuggire un grido di giubilo che nessuno, nemmeno la sua compagna, poté sentire. Il ragazzo sapeva che non appena il livello del mare avesse iniziato a scendere, sarebbe stata la caverna stessa a mostrare loro la strada verso la laguna e l'aria aperta.
Erano forse un paio d'ore che Irene si teneva a galla soltanto grazie all'aiuto di Ismael. Riusciva a malapena a stare sveglia. Il suo corpo ormai non tremava; semplicemente, si lasciava cullare dalla corrente come un oggetto inanimato. Mentre aspettava pazientemente che la marea li lasciasse uscire, Ismael capì che, senza di lui, Irene sarebbe morta da ore.
Mentre la teneva a galla e le sussurrava parole di conforto che lei non poteva capire, al ragazzo vennero in mente le storie raccontate dalla gente di mare sugli incontri con la morte: quando qualcuno salvava la vita di un proprio simile in mare, le loro anime restavano unite eternamente da un vincolo invisibile.
A poco a poco la corrente si ritirò e Ismael riuscì a trascinare Irene verso la laguna, lasciandosi alle spalle l'imboccatura della grotta. Mentre l'alba disegnava una treccia d'ambra all'orizzonte, la portò fino a riva. Quando lei aprì gli occhi, stordita, vide il volto sorridente di Ismael che la osservava.
«Siamo vivi» mormorò lui.
Irene lasciò cadere le palpebre, esausta.
Ismael sollevò per l'ultima volta lo sguardo e contemplò la luce dell'alba sul bosco e sulla scogliera.
Era lo spettacolo più emozionante a cui avesse assistito in tutta la vita. Poi, lentamente, si stese accanto a Irene sulla sabbia bianca e si arrese alla stanchezza. Nulla avrebbe potuto svegliarli da quel sonno. Nulla.
11. Il volto dietro la maschera
La prima cosa che Irene vide quando si svegliò furono due occhi neri e impenetrabili che la osservavano con circospezione. Si ritrasse di scatto e il gabbiano, spaventato, si alzò in volo. Irene sentì le labbra secche e doloranti, un'ardente tensione della pelle e fitte di bruciore su tutto il corpo. I muscoli le sembravano ridotti a uno straccio e il cervello gelatina pura. Un'ondata di nausea la percorse dalla bocca dello stomaco alla testa. Quando cercò di alzarsi, capì che quello strano fuoco che pareva corroderle la pelle come acido era il sole. Un sapore amaro le affiorò alle labbra. Il miraggio di quella che sembrava una caletta fra le rocce le fluttuava attorno come una giostra. Non si era mai sentita peggio in tutta la sua vita.
Si stese di nuovo e si accorse della presenza di Ismael accanto a lei. Non fosse stato per il respiro affannoso, Irene avrebbe giurato che era morto. Si sfregò gli occhi e posò una mano piagata sul collo del compagno. Pulsazioni. Irene accarezzò il viso di Ismael, che poco dopo aprì gli occhi. Per un attimo, il sole lo accecò.
«Sei orribile. .» mormorò, sorridendo a fatica.
«Vedessi te. .» replicò la ragazza.
Come due naufraghi sbattuti sulla spiaggia dalla tempesta, si alzarono barcollando e cercarono la protezione dell'ombra sotto i resti di un tronco abbattuto ai piedi della scogliera. Il gabbiano che aveva vegliato sul loro sonno si posò di nuovo sulla sabbia, con la curiosità ancora insoddisfatta.
«Che ore saranno?» chiese Irene, combattendo contro il martellio che le percuoteva le tempie a ogni parola che pronunciava.
Ismael le mostrò l'orologio. Il quadrante era pieno d'acqua e la lancetta dei secondi, staccata dal perno, emulava un'anguilla pietrificata in un acquario.
Il ragazzo si protesse gli occhi con le mani e osservò il sole.
«È già passato mezzogiorno.»
«Quanto tempo abbiamo dormito?» chiese lei.
«Non abbastanza» replicò Ismael. «Potrei dormire per una settimana di seguito.»
«Adesso non c'è tempo» incalzò Irene.
Lui annuì e studiò la scogliera in cerca di una via d'uscita praticabile.
«Non sarà facile. Io so arrivare alla laguna soltanto dal mare. .» iniziò.
«Cosa c'è dietro la scogliera?»
«Il bosco che abbiamo attraversato ieri notte.»
«E cosa stiamo aspettando?»
Ismael esaminò di nuovo la scogliera. Una selva di spuntoni di pietra acuminati si ergeva di fronte a loro. Per scalare quelle rocce ci sarebbe voluto del tempo, per non parlare delle numerose possibilità di fare uno spiacevole incontro con la legge di gravità e rompersi l'osso del collo. Gli passò per la testa l'immagine di un uovo che si spiaccicava al suolo.
"Un finale perfetto" pensò.
«Sai arrampicarti?» chiese Ismael.
Irene si strinse nelle spalle. Il ragazzo le guardò i piedi nudi ricoperti di sabbia. Braccia e gambe pallide senza alcuna protezione.
«A scuola facevo ginnastica ed ero la più brava ad arrampicarmi sulla corda» disse lei. «Immagino sia la stessa cosa.»
Ismael sospirò. I suoi problemi non erano finiti.
Per qualche secondo Simone Sauvelle ebbe di nuovo otto anni. Vide di nuovo quelle luci di rame e d'argento che disegnavano capricciosi acquerelli di fumo. Sentì di nuovo l'intenso aroma della cera bruciata, le voci che sussurravano nella penombra e la danza invisibile di centinaia di ceri che ardevano in quel palazzo di misteri e incantesimi che aveva stregato i ricordi della sua infanzia: l'antica cattedrale di Saint-Étienne. Ma il sortilegio durò soltanto qualche secondo.
Poco dopo, via via che i suoi occhi stanchi percorrevano le lugubri tenebre che la circondavano, Simone comprese che quelle candele non appartenevano a nessuna cappella: le macchie di luce che danzavano sulle pareti erano vecchie fotografie e quelle voci, quei sussurri lontani, esistevano solo nella sua mente. Seppe istintivamente di non trovarsi nella Casa del Capo, né in nessun altro posto che potesse ricordare. La sua memoria le riportò un'eco confusa delle ultime ore. Ricordava di aver chiacchierato con Lazarus in veranda. Ricordava di essersi preparata un bicchiere di latte caldo prima di andare a letto, e ricordava le ultime parole lette nel libro che troneggiava sul comodino.
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