Due mani di vapore nero gli serrarono la gola; sentì il contatto gelido sulla pelle. I lineamenti di un volto si disegnarono di fronte a lui. Un brivido gli attraversò il corpo dalla testa ai piedi. Le sembianze di suo padre si materializzarono a pochi centimetri dal suo viso. Armand Sauvelle gli sorrise. Un sorriso canino, crudele e pieno di odio.
«Ciao, Dorian. Sono venuto a cercare la mamma. Mi porterai da lei, Dorian?» sussurrò l'ombra.
Il suono di quella voce gli gelò l'anima. Quella non era la voce di suo padre. Quelle luci, demoniache e ardenti, non erano i suoi occhi. E quei denti lunghi e affilati che gli sporgevano dalle labbra non erano quelli di Armand Sauvelle.
«Tu non sei mio padre. .»
Il sorriso da lupo dell'ombra svanì e i suoi lineamenti si sciolsero come cera al fuoco.
Un ruggito animale, di rabbia e di odio, gli straziò i timpani e una forza invisibile lo scagliò verso il lato opposto della stanza. Dorian urtò contro una delle poltrone, rovesciandola.
Sconcertato, si rialzò a fatica, in tempo per vedere l'ombra salire le scale, come una pozza di catrame animata di vita propria che strisciava sugli scalini.
«Mamma!» gridò Dorian, correndole dietro.
L'ombra si fermò un attimo e inchiodò gli occhi nei suoi. Le labbra di ossidiana formarono una parola inudibile. Il suo nome.
I vetri delle finestre di tutta la casa esplosero in una pioggia di schegge letali e la nebbia penetrò ruggendo nella Casa del Capo, mentre l'ombra continuava a salire al piano di sopra. Dorian le si lanciò dietro, inseguendo quella forma spettrale che fluttuava sul pavimento e avanzava verso la porta della camera da letto di Simone.
«No!» gridò il ragazzo. «Non toccare mia madre.»
L'ombra gli sorrise e, un attimo dopo, la massa di vapore nero si trasformò in un vortice che s'infilò nella serratura della stanza. Un secondo di silenzio letale seguì la sua scomparsa.
Dorian corse verso la porta ma, prima che potesse raggiungerla, la tavola di legno volò via, divelta dai cardini con la forza di un uragano, e si fracassò con furia dall'altra parte del corridoio. Dorian si buttò di lato e riuscì a schivarla per pochi millimetri.
Quando si rialzò, davanti ai suoi occhi si spalancò una visione da incubo. L'ombra correva sui muri della stanza di Simone. La silhouette di sua madre, incosciente sul letto, proiettava la propria ombra sulla parete. Dorian vide la sagoma nera scivolare lungo i muri e le labbra dello spettro posarsi su quelle dell'ombra di sua madre. Simone si agitò con violenza nel sonno, misteriosamente imprigionata in un incubo. Due artigli invisibili l'afferrarono e la sollevarono dalle lenzuola. Dorian le bloccò la strada.
Ancora una volta, una furia incontenibile lo colpì e lo scagliò fuori dalla stanza. L'ombra, portando Simone tra le braccia, scese di corsa le scale. Dorian lottò per non perdere i sensi, si rialzò e la seguì al pianoterra. Lo spettro si voltò e, per un istante, i due si fissarono.
«So chi sei. .» mormorò il ragazzo.
Un nuovo volto, a lui sconosciuto, fece la sua apparizione: le fattezze di un uomo giovane, di bell'aspetto e dagli occhi luminosi.
«Tu non sai niente» disse l'ombra.
Dorian vide gli occhi dello spettro perlustrare la stanza e fermarsi sulla porta che conduceva in cantina. La porta di legno consunto si aprì improvvisamente e il ragazzo sentì una presenza invisibile che lo spingeva in quella direzione senza che potesse fare niente per opporsi. Cadde giù per le scale, verso il buio. La porta si richiuse come un'inamovibile lastra di pietra.
Dorian capì che in pochi secondi avrebbe perso conoscenza. Il tempo di sentire la risata dell'ombra, simile a quella di uno sciacallo, che portava via sua madre verso il bosco, nella nebbia.
A mano a mano che la marea guadagnava terreno all'interno della grotta, Irene e Ismael sentivano l'assedio mortale stringersi intorno a loro, una trappola claustrofobica e letale. Irene aveva già dimenticato il momento in cui l'acqua li aveva privati del loro momentaneo rifugio sulla roccia. Ormai non toccavano più. Erano alla mercé della marea e delle proprie capacità di resistenza. Il freddo le sferzava i muscoli provocandole un intenso dolore, il dolore di centinaia di aghi che la trafiggevano. La sensibilità delle mani cominciava a svanire e la stanchezza dispiegava artigli di piombo che sembravano afferrarle le caviglie e tirarla giù. Una voce interiore le sussurrava di arrendersi e congiungersi al sonno tranquillo che li aspettava sott'acqua. Ismael sosteneva a galla la ragazza e sentiva il suo corpo tremargli fra le braccia. Quanto tempo avrebbe potuto resistere così, non lo sapeva. Quanto mancava all'alba e al ritirarsi della marea, ancora meno.
«Non tenere le braccia ferme. Muoviti. Non smettere di muoverti» gemette.
Irene annuì, al limite dell'incoscienza.
«Ho sonno. .» sussurrò la ragazza, quasi delirando.
«No. Non puoi addormentarti ora» ordinò Ismael.
Gli occhi socchiusi di Irene lo guardavano senza vederlo. Lui sollevò il braccio e toccò il soffitto roccioso nel punto in cui li aveva spinti la marea. Le correnti interne li allontanavano dal foro in cima alla volta e li trascinavano nelle viscere della grotta, chiudendo l'unica via di fuga. Malgrado tutti i loro sforzi per rimanere sotto al foro d'ingresso, non c'era modo di afferrarsi a qualcosa ed evitare che la forza inarrestabile della corrente li allontanasse da lì a suo capriccio. Ormai restava appena lo spazio per respirare. E la marea, inesorabile, continuava a salire.
Per un attimo, il volto di Irene precipitò sott'acqua.
Ismael l'afferrò e la tirò su. La ragazza era completamente stordita. Sapeva di uomini più forti ed esperti che erano morti nello stesso modo, in balia del mare. Il freddo poteva avere ragione di chiunque.
Il manto letale prima intorpidiva i muscoli e annebbiava la mente, poi aspettava paziente che la vittima si arrendesse all'abbraccio della morte.
Ismael scosse la ragazza mettendosi di fronte a lei.
Irene balbettò parole senza senso. Senza pensarci due volte, Ismael la schiaffeggiò con forza. Lei aprì gli occhi e si lasciò sfuggire un urlo di panico. Per alcuni secondi non seppe dove si trovava.
Nell'oscurità, circondata dall'acqua gelida e sentendo braccia estranee che la stringevano, credette di essersi svegliata nel peggiore dei suoi incubi. Poi, tutto le tornò alla mente. Cravenmoore. L'angelo. La grotta. Ismael l'abbracciò e lei non riuscì a trattenere il pianto: singhiozzava come una bambina spaventata.
«Non lasciarmi morire qui» sussurrò.
Il ragazzo accolse le sue parole come una pugnalata avvelenata.
«Non morirai qui. Te lo prometto. Non lo permetterò. La marea calerà presto e forse la grotta non si riempirà completamente. . Fra un po' potremo uscire da qui.»
Irene annuì e si strinse a lui con più forza. Magari Ismael avesse nutrito nelle proprie parole la stessa fede della compagna.
Lazarus Jann salì lentamente i gradini della scalinata principale di Cravenmoore. L'aura di una presenza estranea fluttuava sotto l'alone della lampada in cima alla volta. Poteva percepirla nell'odore dell'aria, nel modo in cui le particelle di polvere tessevano una rete di granelli argentati quando venivano intrappolate dalla luce. Arrivato al secondo piano, i suoi occhi si posarono sulla porta all'estremità del corridoio, oltre i veli. Era aperta. Le mani cominciarono a tremargli.
«Alexandra?»
Un freddo sbuffo di vento sollevò le tende che pendevano nel corridoio in penombra. Un oscuro presentimento si abbatté su di lui. Lazarus chiuse gli occhi e si portò una mano al fianco. Una fitta di dolore gli era esplosa in petto, prolungandosi fino al braccio destro, come una miccia, polverizzando con crudeltà i suoi nervi.
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