«È impossibile. Alma Maltisse è annegata all'isolotto del faro molti anni fa. .» obiettò Ismael.
«Però, nessuno ha trovato il suo corpo. .»
«Impossibile» insistette il ragazzo.
«Mentre ero in quella stanza, fissavo il suo ritratto e. . C'era qualcuno steso sul letto. Una donna.»
Ismael si sfregò gli occhi e cercò di schiarirsi le idee.
«Un momento. Supponiamo che tu abbia ragione. Supponiamo che Alma Maltisse e Alexandra Jann siano la stessa persona. Chi è la donna che hai visto a Cravenmoore? Chi è la donna che durante tutti questi anni è rimasta chiusa lì, assumendo l'identità della moglie malata di Lazarus? » chiese.
«Non lo so. . Quanto più sappiamo di questa storia, meno la capisco» disse Irene. «E c'è qualcos'altro che mi preoccupa. Cosa significava la figura che abbiamo visto nella fabbrica di giocattoli? Era una copia di mia madre. Solo a pensarci mi si drizzano i capelli in testa. Lazarus sta costruendo un giocattolo con il volto di mia madre. .»
Un'ondata di acqua gelida le bagnò le caviglie. Il livello del mare era cresciuto almeno di un palmo da quando erano lì. Si scambiarono uno sguardo angosciato. Il mare ruggì di nuovo e una montagna d'acqua rimbombò all'entrata della caverna. Sarebbe stata una notte molto lunga.
La mezzanotte aveva lasciato sulla scogliera una scia di nebbia che saliva, gradino dopo gradino, dal molo alla Casa del Capo. La lampada a olio oscillava ancora nella veranda, agonizzante. A eccezione del rumore del mare e del sussurro delle foglie nel bosco, il silenzio era assoluto. Dorian era a letto, stringendo un piccolo bicchiere di vetro con dentro una candela accesa. Non voleva che sua madre vedesse la luce, e nemmeno si fidava della lampada dopo quello che era accaduto. La fiamma danzava capricciosamente al suo respiro, come lo spirito di una fata di fuoco.
Una sfilata di riflessi gli rivelava forme insospettate in ogni angolo. Dorian sospirò. Quella notte non sarebbe riuscito a chiudere occhio neppure per tutto l'oro del mondo.
Poco dopo aver salutato Lazarus, Simone si era affacciata nella stanza del figlio per assicurarsi che stesse bene. Dorian si era rannicchiato sotto le lenzuola completamente vestito, offrendo una delle sue antologiche interpretazioni del dolce sonno degli innocenti, e sua madre si era ritirata nella propria camera compiaciuta e decisa a imitarlo. Da allora erano già trascorse ore, forse anni, secondo le stime del ragazzo. L'interminabile nottata gli aveva permesso di capire fino a che punto i suoi nervi fossero tesi come le corde di un pianoforte. Ogni riflesso, ogni scricchiolio, ogni ombra minacciavano di lanciare il suo cuore al galoppo.
Lentamente, la fiamma della candela si andò spegnendo, fino a ridursi a una minuscola bolla azzurra, il cui pallore permetteva a stento di fare breccia nella penombra. In un istante l'oscurità tornò a occupare lo spazio a cui aveva rinunciato a denti stretti.
Dorian poteva sentire il gocciolio della cera bollente che s'induriva nel bicchiere. Solo pochi centimetri più in là, sul comodino, l'angelo di piombo che gli aveva regalato Lazarus l'osservava in silenzio.
"D'accordo" pensò Dorian, deciso a utilizzare la sua tecnica preferita per combattere insonnia e incubi: mangiare qualcosa.
Scostò le lenzuola e si alzò. Decise di non mettersi le scarpe, per evitare i centomila scricchiolii che sembravano provocare i suoi piedi ogni volta che voleva muoversi silenziosamente nella Casa del Capo e, raccogliendo tutto il coraggio che gli restava, attraversò in punta di piedi la stanza fino alla porta. Far scattare la serratura senza provocare il solito concerto di cardini arrugginiti a mezzanotte gli prese dieci secondi abbondanti, ma ne valse la pena. Aprì la porta con lentezza esagerata ed esaminò il panorama.
Il corridoio si perdeva nel buio e l'ombra della scala disegnava una trama di chiaroscuri sulla parete.
Non si avvertiva nemmeno il movimento di un granello di polvere nell'aria. Dorian si chiuse la porta alle spalle e camminò cauto fino alla scala, passando davanti alla camera da letto di Irene.
Sua sorella se n'era andata a dormire da ore, con la scusa di un terribile mal di testa, anche se Dorian sospettava che stesse ancora leggendo o scrivendo disgustose lettere d'amore al fidanzato marinaio, con il quale ormai trascorreva più ore di quante ce ne fossero in un giorno. Da quando l'aveva vista con indosso quel vestito di Simone, sapeva che da lei poteva aspettarsi una sola cosa: problemi. Mentre scendeva gli scalini a mo' di esploratore indiano, Dorian giurò a se stesso che se un giorno avesse commesso la sciocchezza di innamorarsi, si sarebbe comportato con maggiore dignità. Donne come Greta Garbo non badavano a certe sciocchezze. Né bigliettini d'amore, né fiori. Poteva essere un vigliacco, ma banale mai.
Arrivato al pianoterra, Dorian si accorse che un banco di nebbia circondava la casa e che la massa di vapore impediva la vista da tutte le finestre. Il sorriso comparso sulle sue labbra mentre prendeva mentalmente in giro la sorella sparì. "Acqua condensata" si disse. "È soltanto acqua condensata che si muove. Chimica elementare." Grazie a quella tranquillizzante visione scientifica, ignorò il manto di nebbia che s'infiltrava dagli spiragli delle finestre e si diresse in cucina. Una volta lì, constatò che la storia d'amore fra Irene e Capitan Tempesta aveva i suoi aspetti positivi: da quando lo frequentava, sua sorella non aveva più toccato la deliziosa scatola di cioccolatini svizzeri che Simone custodiva nel secondo cassetto della credenza.
Leccandosi le labbra come un gatto, Dorian attaccò il primo bonbon. La squisita esplosione di tartufo, mandorle e cacao gli annebbiò i sensi. Per quanto lo riguardava, dopo la cartografia, il cioccolato era probabilmente la più nobile invenzione del genere umano fino a quel momento.
Specialmente i bonbon.
"Popolo ingegnoso, gli svizzeri" pensò. "Orologi e cioccolatini: l'essenza della vita." Un rumore improvviso lo strappò dalle sue placide considerazioni teoriche. Dorian lo sentì di nuovo, paralizzato, e il secondo bonbon gli scivolò tra le dita. Qualcuno stava bussando alla porta.
Il ragazzo cercò di deglutire, ma aveva la bocca secca. Ancora due colpi decisi alla porta di casa.
Dorian si addentrò nel salotto senza distogliere gli occhi dalla porta. Il fiato della nebbia s'infiltrava da sotto la soglia. Risuonarono altri due colpi alla porta. Dorian vi si ritrovò davanti ed esitò un attimo.
«Chi è?» chiese con voce rotta.
Due nuovi colpi furono la sola risposta che ottenne. Il ragazzo si avvicinò alla finestra, ma il manto di nebbia gli impediva del tutto la vista. Non si sentivano passi in veranda. Lo sconosciuto se n'era andato.
Probabilmente un viaggiatore che si era perso.
Dorian stava per tornare in cucina quando i due colpi risuonarono di nuovo, ma stavolta sui vetri della finestra, a dieci centimetri dal suo viso. Il cuore gli fece un balzo. Dorian indietreggiò piano verso il centro della stanza fino a urtare una sedia alle sue spalle. D'istinto il ragazzo agguantò con forza un candelabro di metallo e lo brandì davanti a sé.
«Vattene. .» sussurrò.
Per una frazione di secondo, un volto sembrò formarsi dall'altra parte del vetro, nella nebbia. Poco dopo la finestra si spalancò, spinta dalla violenza di una tempesta. Un'ondata di freddo gli percorse le ossa e Dorian vide, terrorizzato, una chiazza nera che si allargava sul pavimento.
Un'ombra.
La forma si piazzò davanti a lui e a poco a poco acquistò volume, sollevandosi dal suolo come un burattino di tenebre sospeso a fili invisibili. Il ragazzino cercò di colpire l'intruso con il candelabro, ma il metallo attraversò invano la sagoma scura. Dorian fece un passo indietro e l'ombra gli si scagliò contro.
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