«Evoco gli anni dell'infanzia come una successione di grida per strada e di lunghe malattie di mia madre. In uno dei miei primi ricordi, sono seduto sulle ginocchia di Nicole, la vicina, e ascolto quella brava donna raccontarmi che mia madre è molto malata, che non può accorrere ai miei richiami e che devo essere buono e andare a giocare con gli altri bambini. Gli altri bambini ai quali si riferiva erano un gruppo di straccioni che mendicavano dall'alba al tramonto e imparavano prima dei sette anni che la sopravvivenza nel quartiere consisteva nel diventare criminale o poliziotto. Non è necessario chiarire quale delle due alternative fosse la preferita.
«L'unica luce di speranza in quei giorni nel quartiere era rappresentata da un personaggio misterioso che occupava i nostri sogni. Si chiamava Daniel Hoffmann e il suo nome era sinonimo di fantasia per tutti noi, al punto che tanti dubitavano perfino della sua esistenza. Secondo la leggenda, Hoffmann percorreva le strade di Parigi con vari travestimenti e simulando diverse identità, distribuendo ai bambini poveri i giocattoli che lui stesso aveva costruito nella sua fabbrica. Tutti i bambini di Parigi avevano sentito parlare di lui e tutti sognavano di essere un giorno i prescelti dalla fortuna.
«Hoffmann era l'imperatore della magia, dell'immaginazione. Solo una cosa poteva sconfiggere la forza del suo fascino: l'età. Via via che i ragazzi crescevano e il loro spirito restava privo della capacità di immaginare, di giocare, il nome di Daniel Hoffmann si cancellava dalla loro memoria; finché un giorno, ormai adulti, non erano in grado di identificarlo quando lo sentivano pronunciare dai figli. .
«Daniel Hoffmann è stato il più bravo creatore di giocattoli che sia mai esistito. Aveva una grande fabbrica nel quartiere di Les Gobelins. L'edificio assomigliava a un'enorme cattedrale che si ergeva fra le tenebre di quel quartiere spettrale e pieno di pericoli e miseria. Una torre sottile come un ago s'innalzava al suo centro e si conficcava tra le nuvole. Di lì, le campane annunciavano l'alba e il crepuscolo ogni giorno dell'anno. L'eco di quelle campane si sentiva in tutta la città. Noi ragazzi del quartiere conoscevamo la fabbrica, però gli adulti non erano in grado di vederla e credevano che al suo posto ci fosse un'immensa palude impenetrabile, un territorio abbandonato nel cuore di tenebra di Parigi.
«Nessuno aveva mai visto il vero volto di Daniel Hoffmann. Si diceva che il creatore dei giocattoli abitasse in una sala in cima alla torre e non ne uscisse quasi mai, se non quando si avventurava, travestito, per le strade di Parigi al tramonto e regalava giocattoli ai bambini diseredati della città. In cambio chiedeva soltanto una cosa: il cuore dei ragazzi, la loro promessa di amore e di obbedienza eterni. Qualunque ragazzino del quartiere gli avrebbe dato il cuore senza esitare. Ma non tutti sentivano quel richiamo. Le voci parlavano di centinaia di differenti travestimenti che occultavano la sua identità.
C'era chi si spingeva a dire che Daniel Hoffmann non usasse mai due volte lo stesso abbigliamento.
«Ma torniamo a mia madre. La malattia a cui si riferiva Nicole è per me ancora un mistero. Immagino che certe persone, come alcuni giocattoli, nascano a volte con un difetto d'origine. In qualche modo, questo ci trasforma tutti in giocattoli rotti, non le pare? Il fatto è che l'infermità di cui soffriva mia madre si tradusse con il tempo in una progressiva perdita delle capacità mentali. Quando il corpo è ferito, la mente non tarda a deviare dal cammino. È la legge della vita.
«Fu così che imparai a crescere con la solitudine come unica compagnia sognando che un giorno Daniel Hoffmann sarebbe venuto in mio aiuto. Ricordo che ogni notte, prima di andare a letto, chiedevo all'angelo custode di portarmi da lui. Ogni notte. E fu sempre così che, immagino spinto da quelle fantasie su Hoffmann, iniziai a costruire io stesso i giocattoli.
«Utilizzavo resti che trovavo nella spazzatura del quartiere. Così costruii il mio primo treno, e un castello di tre piani. Poi seguirono un drago di cartone e, più avanti, una macchina per volare, molto prima che gli aeroplani fossero una visione abituale in cielo. Però il mio giocattolo preferito era Gabriel.
Gabriel era un angelo. Un angelo meraviglioso che forgiai con le mie mani affinché mi proteggesse dall'oscurità e dai pericoli del destino. Lo costruii con i resti di un ferro da stiro e chincaglieria varia; che mi procurai da un telaio abbandonato due strade oltre quella in cui abitavamo. Ma Gabriel, il mio angelo custode, ebbe vita breve.
«Il giorno in cui mia madre scoprì il mio arsenale di giocattoli, Gabriel venne condannato a morte.
«Mia madre mi portò in cantina e lì, sussurrando e senza smettere di guardarsi attorno, come se temesse che ci fosse qualcuno in agguato nell'ombra, mi raccontò che un uomo le aveva parlato in sogno. Il suo confidente le aveva fatto la seguente rivelazione: i giocattoli, tutti i giocattoli, erano un'invenzione di Lucifero in persona. Grazie a quelli, sperava di dannare le anime di tutti i bambini del mondo. Quella sera stessa Gabriel e tutti i miei giocattoli finirono nella caldaia.
«Mia madre insistette perché li distruggessimo insieme, assicurandoci che fossero ridotti in cenere. In caso contrario, l'ombra della mia anima maledetta, mi spiegò, sarebbe venuta a prendermi. Ogni macchia nella mia condotta, ogni mancanza, ogni disobbedienza vi restava impressa. Un'ombra che portavo sempre con me e che era un riflesso della mia malvagità e della mia mancanza di considerazione nei suoi riguardi, nei riguardi del mondo. .
«A quell'epoca avevo sette anni. .
«Fu più o meno in quel periodo che la malattia di mia madre si aggravò. Iniziò a rinchiudermi in cantina, dove, secondo lei, l'ombra non avrebbe potuto trovarmi se fosse venuta a prendermi. Durante quelle lunghe prigionie, a stento osavo respirare, temendo che i miei sospiri richiamassero l'attenzione dell'ombra, quel malvagio riflesso della mia anima debole, e che mi portasse dritto all'inferno. Tutto questo le sembrerà comico, nel peggiore dei casi triste, madame Sauvelle, ma per quel bambino di pochi anni era la spaventosa realtà di ogni giorno.
«Non vorrei annoiarla con dettagli sordidi di quel periodo. Basti dire che, durante una di quelle prigionie, mia madre perse definitivamente il poco senno che le restava e io rimasi una settimana intera imprigionato in cantina, solo nell'oscurità. L'avrà già letto sul ritaglio, immagino. Una di quelle storie che ai giornalisti piace mettere in prima pagina. Le cattive notizie, specie se scabrose e raccapriccianti, aprono i portafogli del pubblico con sbalorditiva efficacia. Nel frattempo, si chiederà lei, che cosa fa un bambino rinchiuso per sette giorni e sette notti in uno scantinato buio?
«In primo luogo, mi permetta di dirle che l'essere umano, privato per qualche ora della luce, perde il senso del tempo. Le ore si trasformano in minuti o in secondi. O in settimane, se preferisce. Il tempo e la luce sono strettamente legati. Il fatto è che durante quel periodo accadde qualcosa di davvero prodigioso. Un miracolo. Il mio secondo miracolo, se vuole, dopo quei minuti in sospeso appena nato.
«Le mie preghiere ebbero effetto. Tutte quelle sere a pregare in silenzio non erano state inutili. La chiami fortuna, lo chiami destino.
«Daniel Hoffmann venne da me. Proprio da me. Fra tutti i bambini di Parigi, quella notte fui io il prescelto per ricevere la sua grazia. Ricordo ancora quel timido bussare alla botola che dava all'esterno, in strada. Io non potevo arrivarci, ma potei rispondere a quella voce; la voce più buona e meravigliosa che abbia mai sentito. Una voce che faceva svanire l'oscurità e dissipava la paura di un povero bimbo spaventato come il sole scioglie il ghiaccio. E sa una cosa, Simone? Daniel Hoffmann mi chiamò per nome.
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