Carlos Zafón - Le luci di settembre

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Durante l'estate del 1937 Simone Sauvelle, rimasta all'improvviso vedova, abbandona Parigi assieme ai figli, Irene e Dorian, e si trasferisce in un piccolo paese sulla costa per sfuggire agli ingenti debiti accumulati dal marito. Trova lavoro come governante per il facoltoso fabbricante di giocattoli Lazarus Jann in una gigantesca magione chiamata Cravenmoore, dove l'uomo vive con la moglie malata. Tutto sembra andare per il meglio. Lazarus si dimostra un uomo gradevole, tratta con riguardo Simone e i figli, a cui mostra gli strani esseri meccanici che ha creato - e che sembrano avere vita propria - mentre Irene si innamora di Ismael, il cugino di Hannah, la cuoca della casa. Ma eventi macabri e strane apparizioni sconvolgono l'armonia di Cravenmoore: Hannah, viene trovata morta e una misteriosa ombra si impossessa della tenuta. Spetterà a Irene e Ismael lottare contro un nemico invisibile per salvare Simone e svelare l'oscuro segreto che avvolge la fabbrica dei giocattoli, un enigma che li unirà per sempre e li trascinerà nella più emozionante delle avventure in un mondo labirintico di luci e ombre.

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«E io gli aprii le porte del mio cuore. Dopo un po', una luce meravigliosa illuminò la cantina e Hoffmann comparve dal nulla, indossando uno sfolgorante vestito bianco. Se l'avesse visto, Simone. .

Era un angelo, un vero e proprio angelo di luce. Non ho mai visto nessuno irradiare quell'aura di bellezza e di pace.

«Quella notte Daniel Hoffmann e io chiacchierammo in intimità, come stiamo facendo noi adesso.

Non ci fu bisogno che gli raccontassi di Gabriel e degli altri miei giocattoli; era già al corrente. Sappia che Hoffmann era un uomo informato. Era al corrente anche delle storie sull'ombra che mia madre mi aveva raccontato. Sapeva tutto al riguardo. Sollevato, gli confessai che quell'ombra mi terrorizzava davvero. Non può immaginare la compassione, la comprensione che emanava da quell'uomo. Ascoltò pazientemente il racconto di quanto mi accadeva, e potevo sentire che era partecipe del mio dolore, della mia angoscia. In particolare, capiva qual era il più grande dei miei timori, il peggiore dei miei incubi: l'ombra. La mia stessa ombra, quello spirito maligno che mi seguiva ovunque e si faceva carico di tutto il male che c'era dentro di me. .

«Fu Daniel Hoffmann a spiegarmi cosa dovevo fare. Fino a quel momento ero un povero ignorante, cerchi di capirmi. Che ne sapevo io di ombre? Che ne sapevo di quei misteriosi spiriti che facevano visita alle persone in sogno e parlavano loro del passato e del futuro? Nulla.

«Invece lui sapeva. Sapeva tutto. Ed era disposto ad aiutarmi.

«Quella notte Daniel Hoffmann mi rivelò il futuro. Mi disse che ero destinato a succedergli alla testa del suo impero. Mi spiegò che tutta la sua conoscenza, tutta la sua arte, un giorno sarebbe stata mia e che il mondo di povertà che mi circondava sarebbe svanito per sempre. Mi mise tra le mani un avvenire che non avrei mai osato sognare. Un futuro. Io non sapevo cosa fosse. E lui me lo offrì. In cambio, dovevo fare soltanto una cosa. Una piccola, insignificante promessa: dovevo consegnargli il mio cuore.

Solo a lui e a nessun altro.

«L'inventore di giocattoli mi chiese se comprendevo ciò che questo significava. Risposi di sì, senza esitare un istante. Certo che poteva contare sul mio cuore. Era l'unica persona che si fosse comportata bene con me. L'unica a cui fosse importato di me. Mi disse che, se lo desideravo, molto presto sarei uscito di lì, che non avrei mai più rivisto quella casa e quel quartiere, e nemmeno mia madre. E, la cosa più importante, disse che non avrei mai più dovuto preoccuparmi dell'ombra. Se facevo ciò che lui mi chiedeva, il futuro mi si sarebbe spalancato davanti, fulgido e luminoso.

«Mi domandò se avevo fiducia in lui. Annuii. Allora tirò fuori una piccola boccetta di vetro, simile a quella in cui lei terrebbe il profumo. Sorridendo, la stappò e i miei occhi assistettero a un'impressionante visione. La mia ombra, il mio riflesso sul muro, si trasformò in una macchia danzante. Una nube di oscurità che venne assorbita dalla boccetta, catturata per sempre al suo interno.

Poi Daniel Hoffmann richiuse la boccetta e me la diede. Il vetro era freddo come il ghiaccio.

«Mi spiegò allora che, da quel momento, il mio cuore ormai gli apparteneva e che presto, molto presto, tutti i miei problemi sarebbero scomparsi. Se non mancavo al mio giuramento. Gli dissi che mai avrei potuto fare una cosa simile. Mi sorrise di nuovo con affetto e mi diede un regalo. Un caleidoscopio. Mi chiese di chiudere gli occhi e pensare con tutte le forze a quello che più desideravo nell'universo. Mentre lo facevo, si accovacciò davanti a me e mi baciò sulla fronte. Quando aprii gli occhi, non c'era più.

«Una settimana dopo, la polizia, avvertita da un anonimo informatore che la mise al corrente di quanto accadeva a casa mia, mi tirò fuori da quel buco. Mia madre era morta. .

«Nel tragitto verso il commissariato, le strade furono invase dai mezzi dei pompieri. Nell'aria si sentiva l'odore del fuoco. I poliziotti che mi tenevano in custodia fecero una deviazione e allora la vidi: all'orizzonte, la fabbrica di Daniel Hoffmann bruciava in uno degli incendi più spaventosi della storia di Parigi. La gente che non si era mai accorta della sua esistenza osservava quella cattedrale di fuoco. Tutti ricordarono allora il nome di quel personaggio che aveva riempito di sogni la loro infanzia: Daniel Hoffmann. Bruciava il palazzo dell'imperatore. .

«Le fiamme e la colonna di fumo nero si innalzarono verso il cielo per tre giorni e tre notti, come se l'averno avesse aperto le sue porte nel cuore oscuro della città. Io ero lì e lo vidi con i miei occhi. Giorni dopo, quando restavano soltanto le ceneri a testimoniare l'esistenza dell'impressionante edificio che prima sorgeva in quel luogo, i giornali pubblicarono la notizia.

«Con il tempo, le autorità trovarono un parente di mia madre che si prese cura di me e io andai a vivere con la sua famiglia a Cap d'Antibes. Lì sono cresciuto e sono stato educato. Una vita normale.

Felice. Come mi aveva promesso Daniel Hoffmann. Mi permisi perfino di inventare una variante del mio passato per raccontarla a me stesso: la storia che le ho narrato.

«Il giorno in cui compii diciott'anni ricevetti una lettera. Il timbro risaliva a otto anni prima, dell'ufficio postale di Montparnasse. In quella lettera il mio vecchio amico mi annunciava che lo studio notarile di un certo monsieur Gilbert Travant, di Fontainebleau, custodiva le carte di una villa sulla costa della Normandia che entrava legalmente in mio possesso al compimento della maggiore età. La lettera, su carta pergamena, era firmata con una "D".

«Ci misi diversi anni a prendere possesso di Cravenmoore. A quel punto ero già un promettente ingegnere. I miei progetti di giocattoli erano superiori a qualunque altro conosciuto fino ad allora. Ben presto capii che era giunto il momento di creare una fabbrica tutta mia. A Cravenmoore. Stava accadendo tutto proprio come mi era stato annunciato. Finché non avvenne l'incidente. Accadde alla Porte de Saint-Michel, un 13 febbraio. Lei si chiamava Alexandra Alma Maltisse ed era la creatura più bella che avessi mai visto.

«In tutti quegli anni, avevo conservato la boccetta che Daniel Hoffmann mi aveva dato quella notte nella cantina di rue des Gobelins. Era ancora gelida al tatto come allora. Sei mesi dopo tradii la promessa a Daniel Hoffmann e consegnai il mio cuore a quella ragazza. La sposai. Fu il giorno più felice della mia vita. La notte prima delle nozze, che si sarebbero celebrate a Cravenmoore, presi la boccetta che conteneva la mia ombra e mi diressi alle scogliere del capo. Da lì, condannandola per sempre all'oblio, la scagliai nelle acque scure.

«Naturalmente, infransi la mia promessa. .»

Il sole aveva già iniziato a declinare sulla baia quando Ismael e Irene avvistarono tra gli alberi la facciata posteriore della Casa del Capo. La stanchezza che entrambi si trascinavano sembrava essersi rintanata discretamente in qualche luogo non molto lontano, nell'attesa di un momento più opportuno per rifarsi viva. Ismael aveva già sentito parlare di quel fenomeno, una sorta di aura che sperimentavano alcuni atleti quando oltrepassavano i limiti delle loro capacità di resistenza. Superato quel punto, il corpo andava avanti senza mostrare segni di stanchezza. Fino a quando la macchina non si fermava, è chiaro. Una volta terminato lo sforzo, la punizione crollava loro addosso tutta in una volta. Un prestito dei muscoli, per così dire.

«A cosa stai pensando?» chiese Irene, notando l'espressione meditabonda del ragazzo.

«Che ho fame.»

«Anch'io. Non è strano?»

«Al contrario. Niente di meglio che un bello spavento per aprire lo stomaco» si consentì di scherzare Ismael.

La Casa del Capo era tranquilla e non c'era traccia apparente degli abitanti. Due ghirlande di vestiti asciutti, appesi agli stenditoi, ondeggiavano al vento. Con la coda dell'occhio, Ismael captò una visione fugace di quelli che sembravano proprio indumenti intimi di Irene. La sua mente si attardò a considerare l'aspetto che avrebbe avuto la sua compagna con indosso quei capi.

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