Sul fondo del canyon una grande luce sbocciò e si spense. Frammenti di roccia urtarono silenziosamente contro la lancia. Il ponte saltò sotto i loro piedi e la porta di sicurezza li proiettò in avanti mentre lo scafo sobbalzava paurosamente. Batterono con violenza sul terreno. Per alcuni secondi giacquero dov’erano caduti e non si udirono altre esplosioni. Trehearne gemette e si mise a sedere. «Penso che sia stata l’ultima. Quorn? Edri? Qualcuno mi risponda.»
Edri taceva, ma Quorn disse con voce sorda: «Sanno che abbiamo interrotto la trasmissione. Dannazione mi sono tagliato il labbro sul bordo del casco e il sangue mi cola addosso.» Trehearne lo udì sputare. Si accostò a Edri e lo scosse. Finalmente Edri disse «Dov’è il taccuino?»
«È rimasto sulla lancia.»
«Dobbiamo andare a prenderlo…»
«Perché?»
«Forse hai ragione. Ci siamo riusciti, Quorn? Abbiamo finito?»
«Non so, non so! Ci hanno sorpresi così presto…»
Si alzò da terra, gli occhi fissi a qualcosa, e poi tese una mano verso il cielo nero. «Fuggiamo» chiese «o aspettiamo?»
Trehearne guardò su e giù per il letto del fiume ostruito da strati d’aria congelata e poi volse gli occhi alla dura nitida linea delle rocce sopra le loro teste. «Potremmo respirare per qualche ora, va bene, fino a esaurire la nostra riserva di ossigeno. Ma non credo ne valga la pena.»
Quorn tornò a sedere. «Penso sia bene aspettare, allora.»
Attesero, e il caccia calò silenzioso dal cielo. Le ripide pareti rocciose sovrastanti facevano da schermo alla luce della Galassia, e il canyon era buio, ma gli oblò del caccia splendettero di un vivido bagliore. Trehearne fu quasi lieto di vederli. Erano umani. Davano un senso di conforto, dopo tutta la notte e la desolazione di quel pianeta spento. Lo sportello si aprì e una nitida lama di luce ne uscì, diritta, senz’aria che ne diffondesse il riflesso, andando a colpire la parete opposta del canyon accanto alla lancia. Uomini in scafandro cominciarono a uscire dallo sportello. Trehearne si alzò in piedi. S’avviò per il vivido fascio di luce, muovendo lentamente incontro agli uomini. Edri lo seguì, Quorn pure.
Una voce sconosciuta gli giunse attraverso l’interfonico del casco. «Dite i vostri nomi.»
Dissero i loro nomi e Trehearne soggiunse: «Non siamo armati. Siamo sfiniti.» C’era un certo sollievo in quell’essere sfiniti. Qualunque cosa fosse accaduta da allora in poi non dipendeva più da loro. Potevano starsene tranquillamente passivi, rilassarsi, lasciare che qualunque cosa accadesse. Guardò l’astronave e pensò al calore, al cibo, al riposo, e a un buon sonno. A Shairn e Kerrel si poteva pensare più tardi.
Gli uomini del caccia erano armati di fucili disgregatori assai più pericolosi dei piccoli disgregatori a tubo che avevano come unico effetto la parziale perdita dei sensi. Avanzarono per un breve tratto verso le tre goffe figure che seguivano cautamente il fascio di luce. La prima voce che aveva parlato diede un ordine e i due uomini si accostarono alla lancia per perlustrarla, le torce oscillanti. Poi la voce si rivolse a Trehearne e agli altri. «Tenete le mani più in alto che potete. Benissimo, va bene così.»
Trehearne disse: «Ve l’ho detto, non siamo armati.»
«Misura di prudenza. Restate dove siete.»
Obbedirono e furono perquisiti.
«Benissimo» disse la voce dell’ufficiale. «Venite a bordo.»
«No.»
Una parola secca pronunciata pianamente da una voce che Trehearne conosceva. Una voce che non udiva da un tempo immemorabile, ma che ricordava. La voce di Kerrel. La mortale stanchezza che pesava su di lui si allentò un poco e subentrò l’ira. Gli uomini erano ritti nel fascio di luce, ma gli volgevano le spalle, faccia a faccia com’erano con i prigionieri. Il nitido bagliore li investiva lasciando tuttavia i loro visi nell’ombra, invisibili dietro il visore dei caschi. Trehearne cercò di identificare Kerrel, ma non vi riuscì.
L’ufficiale obiettò, seccato: «Ma non ha senso star qui fuori più a lungo.»
L’avventura era stata lunga e dura anche per lui. «Appena la squadra in perlustrazione ritornerà, decolleremo.»
«Sì» disse Kerrel. «Ma loro no. Loro resteranno qui.»
Le forme avvolte negli scafandri, inumane forme senza volto, che erano rimaste vicine, si scostarono un poco e si volsero l’una all’altra, come tentassero di perforare l’oscurità con le balenanti lenti dei caschi. Ci fu un silenzio di stupore e poi Edri disse. «Questo è un assassinio.»
La voce dell’ufficiale, alterata dall’ira, domandò: «Kerrel, che diavolo… Sei impazzito?»
«La giustizia è una pazzia.» C’era qualcosa di strano nella voce di Kerrel. Era sorda e atona, priva di passione, la voce di un uomo che non può resistere a quello che gli grava dentro, a cui non basta più per trovar scampo nessuna normale via di sfogo. «Può darsi che siano riusciti nell’impresa. Lo capite? Può darsi che abbiano attuato i loro piani. Sapete che cosa significherebbe tutto ciò?»
«Lo so quanto te e non preoccuparti della giustizia, saranno puniti. Ma, secondo le leggi, sarà il Consiglio a far giustizia, a Llirdis.»
«Le leggi» ripeté Kerrel a bassa voce. «Trehearne ha già beneficiato una volta delle nostre leggi. Io dissi allora ai membri del Consiglio che avevano torto a favorirlo. Le leggi sono giuste, le ho servite tutta la vita. Ma ci sono casi in cui si deve andare oltre la lettera della legge, se si vuol continuare a servirla. Lasciali qui.»
Trehearne parlò, per la prima volta. «Non sarebbe bene che io ritornassi a Llirdis, vero, Kerrel? Non sarebbe bene che in pieno Consiglio raccontassi come e perché Yann morì.»
La voce di Kerrel gli rispose e non avrebbe saputo dire quale fosse a parlare delle forme avvolte negli scafandri parlasse forme dal viso celato. Era pazzesco non saperlo.
«E avevo torto, Trehearne? Potresti presentarti in pieno Consiglio e dimostrare che avevo torto nel tentare ciò che tentai?»
«Ascolta» riprese l’ufficiale. «Non sono né un giudice né una giuria. Sono stato inviato dal Consiglio per riportare a Llirdis questi uomini e intendo eseguire gli ordini. Per amor di Dio, Kerrel, smetti di volerti caricare sulle spalle il peso dell’intero universo. Nessun uomo ne è in grado. Venite, voi tre… salite a bordo.»
«No.»
Una delle figure si staccò. Una delle figure abbandonò il resto del gruppo e si frappose tra esso e l’astronave, il disgregatore tra le mani.
«Non vedi abbastanza lontano. Supponi che non siano riusciti. Se venissero processati, secondo una legge e un sistema per abbattere il quale hanno rischiato la vita, se fosse loro permesso di rivelare a tutta la Galassia quanto hanno fatto, di divenire eroi e martiri, una sorgente di sventura per tutti i tempi a venire?»
«Ci sono stati in passato altri processi a Orthis.» L’ufficiale si dirigeva verso Kerrel. «Penso faresti meglio a darmi quell’arma, prima che ti faccia portar via di qui.»
La bocca del disgregatore si alzò, e Kerrel disse: «Aspetta, non ho finito.» L’ufficiale fece un altro passo e poi esitò e parve che un improvviso disagio invadesse lui e gli altri uomini del caccia. Il ventre di Trehearne si contrasse in un fremito di furia impotente e le sue mani si tesero in un inutile gesto avido, come ad afferrare qualcosa. Quorn imprecava in tono monotono, così basso che la sua voce era come la trama in cui si inserivano le voci degli altri.
Kerrel disse: «Il caso di questi uomini è diverso. Hanno trovato l’astronave, il loro reliquiario. Vi sono penetrati, hanno toccato i taccuini, per quel che ne so, hanno visto il corpo stesso di Orthis. Hanno dimostrato che l’impresa era possibile. Tutto ciò sarà mai dimenticato?»
«Non me ne importa un accidente» sbottò l’ufficiale. «Nessuno deve uccidere dei prigionieri. Dammi l’arma.»
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