Edri mormorò: «Ebbene, punta sul pianeta esterno per primo. Dammi una mano, Trehearne.»
Strisciarono a poppa tra i mucchi degli attrezzi in cerca di un rivelatore Geiger proveniente dalla stiva della Mirzim. Edri lo afferrò nervosamente.
«Ai tempi di Orthis usavano combustibile radioattivo, naturalmente» mormorò Edri. «Nei nostri calcoli ne abbiamo dimezzato la durata. Anche supponendo che le riserve fossero quasi finite, ne dovrebbe essere rimasto abbastanza da essere registrato dal contatore. Una manciata sarebbe sufficiente.»
Trehearne aiutò Edri a sistemare la copertura protettiva sul meccanismo finché l’indice si fermò.
«E i depositi radioattivi dei pianeti stessi?» chiese.
«Abbiamo pensato anche a questo. Troppo antichi. L’ultimo elemento radioattivo dovrebbe essersi praticamente esaurito milioni di anni fa.» Alzò la voce. «Tieni la lancia più bassa che puoi, Quorn. Lo strumento ha il massimo raggio in estensione. Fallo funzionare lentamente.»
Si curvò sull’indice indicatore. Trehearne si affacciò di nuovo a guardare.
Il pianeta era piccolo, meno di duemila miglia di diametro. Tra le fitte tenebre e il movimento della lancia, non riusciva a veder nulla se non una nera informe desolazione, rotta qua e là da un biancore che pensò fossero i residui gelati di un’atmosfera. Immaginò che cosa sarebbe stato atterrare laggiù, e rabbrividì.
Perlustrarono e ispezionarono accuratamente il pianeta. L’indice del contatore non si mosse. Edri disse gravemente: «Continueremo. Pregate il cielo che lo troviamo sull’altro pianeta. Pregate che Orthis non sia approdato sulla stella oscura. Ci vorrebbe un’eternità a rintracciarlo là.»
Quom aumentò la potenza di volo e si allontanò. L’oblò si offuscò di nuovo, ed Edri gemette.
«Edri sta per crollare» osservò Quorn. «Sembra che qualunque cosa si faccia, dovremo sfruttare al massimo le nostre forze.»
Il secondo pianeta era più grande del primo circa di tre volte. Non soltanto era informe. Vi si innalzavano catene montuose accidentate e corrose, nudi scheletri di montagne avvolti in gelidi vapori. Vi si stendevano desolate pianure coperte di bianca aria congelata, debolmente balenanti alla luce della grande ruota galattica.
Esso mostrava agli osservatori i fondi vuoti dei suoi oceani scomparsi, riassorbiti fino al golfo più profondo. Rivelava le cicatrici della sua lunga agonia, le ferite brutali dell’esplosione interna, le profonde incisioni della sua crosta contratta. Un mondo orrendo che ancora pareva rammentare l’antica bellezza e risentire la crudeltà della morte.
Edri sussurrò: «Pregate, pregate che questo dannato affare si muova.» Ma invece lanciò un’imprecazione all’indirizzo dell’indice che non si muoveva.
«Continuiamo» disse Trehearne.
Continuarono.
L’indice ebbe una lieve oscillazione.
Edri emise un grido roco. «Rallenta! Rallenta! » Le lacrime cominciarono a scorrergli per le guance. Scoppiò in singhiozzi. L’indice era ancora immobile.
«Voliamo in circoli!» gridò Trehearne a Quorn. «Voliamo in circoli finché non individuiamo il punto esatto.»
Si passò la lingua sulle labbra. Sentì un sapore di sale e si chiese meravigliato che cosa fosse mai.
Quorn fece descrivere alla lancia una spirale restringentesi, finché Edri disse: «Ora scendi.»
Poi si avvicinò all’oblò e vi premette il viso contro cercando di vedere. Quorn accese uno dei fari d’atterraggio. Il bagliore bianco-azzurro illuminò un’area circolare al di sotto, che si staccò netta dalla fitta oscurità. Il fascio di luce perforò nitidamente lo spazio.
Lo seguirono. Era come se la lancia sprofondasse posata su quel guanciale di luce. Si trovavano al di sopra di una superficie planetaria dilaniata e torturata dall’ultima fase diastrofica. Torreggiante da una paurosa altezza, incombeva un possente e accidentato sperone roccioso. Ai suoi piedi si apriva un baratro e, al di là del baratro si stendeva un desolato paesaggio sconvolto, nebuloso, sotto la grande lama di luce della Galassia.
Discesero lungo la parete del titanico sperone. Guardando entro l’abisso, alla sua base, Trehearne cominciò a sentirsi inquieto.
«Non vi sono astronavi qui» osservò. «Il contatore deve aver registrato qualche ultima radiazione proveniente dal fondo di questo baratro.»
Quorn assentì. Ma Edri disse: «No, continua.» Trehearne lo sentiva tremare.
Continuarono a discendere lungo la gigantesca parete minacciosa. D’un tratto Trehearne indicò qualcosa: «Non c’è un ripiano roccioso laggiù?»
Il nitido fascio di luce del faro rivelò un pianoro roccioso che si sporgeva nel vuoto a metà della parete.
Quorn volse la lancia in quella direzione. Qualcosa su quel ripiano balenò lievemente alla luce. Quorn fece scendere la lancia a una velocità vertiginosa. I particolari si rivelarono nitidi: la roccia scheggiata, il magma antico, le bolle di aria gelata nelle cavità. E tra esse una forma ovoidale, simmetrica, liscia, che mandava un lieve riflesso metallico.
Edri disse il nome di Orthis come se stesse pregando.
Quorn era atterrato sul ripiano roccioso. Si erano rapidamente infilati gli scafandri. Avevano dimenticato di essere quasi in fin di vita.
Muovendosi goffamente in quella pesante tenuta, incespicando nelle rocce frastagliate, scivolando sugli strati d’aria gelata, si aprirono un varco verso la meta per giungere alla quale avevano attraversato la Galassia e messo in gioco le loro stesse vite. Sopra di loro lo spaventoso sperone si ergeva nel vuoto. Sotto di loro l’abisso precipitava nel morto cuore di un pianeta. Alle loro spalle si sentiva un’immane desolazione e nel cielo nero il possente orlo della Galassia ardeva come una spada infuocata.
Trehearne avvertiva profondamente il silenzio. Non era mai stato prima in un pianeta senz’aria. S’accorse di urtare col suo stivale metallico contro un frammento di roccia, ma non vi fu alcun rumore. Tutto quel che poteva udire era il roco respiro di Quorn e di Edri trasmessogli dal microfono del casco.
La nave di Orthis si stagliava minacciosa di fronte a loro, senza luci, senza vita. Cullata dalle ceneri della distruzione. Aveva un’aria di paziente attesa. Giaceva là da mille anni, non toccata dal tempo o dalla ruggine, seppellita nel silenzio della notte interminabile, eterna come gli astri spenti che vagano per sempre in uno spazio incorruttibile. Pareva che potesse attendere fino alla fine dell’Universo, alimentando la sua speranza. Un senso di timore reverenziale e con esso un senso di paura invasero Trehearne.
Trovarono la porta di sicurezza. Era spalancata, i battenti ancora lucidi. Non ci poteva essere corrosione qui, dove ogni atomo d’aria e di umidità si congelava nel freddo purificante. La luce della torcia di Trehearne gli rivelò sul pavimento della camera di compressione le orme di uno stivale d’uomo. Avrebbero potuto esservi state impresse solo ieri.
I tre uomini si fermarono fuori da quella porta aperta. Si guardarono l’un l’altro attraverso le visiere di glassite dei caschi e i loro volti erano strani. Poi Trehearne si scostò, e così fece anche Quorn. Edri chinò il capo. Avanzò verso la porta. Lentamente, senza rumore, salì sull’astronave di Orthis.
Gli altri lo seguirono da vicino. Le loro torce fendevano con nitidi fasci di luce l’oscurità priva d’aria. Attraversarono la camera di compressione raggiungendo un corridoio che portava a prua e a poppa. Vi regnava un’assoluta quiete. Il pesante contatto degli stivali con il ponte metallico non produceva il più lieve rumore. Era come camminare in un incubo, e l’assenza di vita a bordo dell’astronave, la nera, inerte, immobile assenza di vita era più opprimente della desolazione che la circondava. Le rocce e i dirupi non si erano mai mossi, non erano stati alterati da mani d’uomini. Nessun pensiero o speranza li aveva mai penetrati. La pelle di Trehearne era percorsa da piccoli brividi di freddo. Poteva udire il battito del sangue nelle orecchie, il rimbombo sordo del suo cuore. Si muoveva con gli altri, figure perdute in una tomba, e trasaliva come un fanciullo a ogni forma che la luce rivelava.
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