Leigh Brackett - La legge dei Vardda

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La legge dei Vardda: краткое содержание, описание и аннотация

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Un grande biologo, Orthis, ha trovato il modo di operare una mutazione nella struttura molecolare del corpo umano, perché possa resistere all’accelerazione di velocità necessaria per i viaggi interstellari. I discendenti di questi primi mutanti, i Vardda, si sono stabiliti su un pianeta di Aldebaran e di là dominano i cieli e i popoli degli altri pianeti, arricchendosi con gli scambi dei prodotti dei vari mondi, prodotti che essi soltanto, che possono sopportare la velocità dei viaggi interstellari, possono trasportare, con le loro potenti astronavi che superano la velocità della luce. C’è un uomo sulla Terra, Trehearne, che è nato da una terrestre e da un Vardda e in cui la mutazione è perfetta. Quest’uomo s’innamora di una bellissima Vardda e col suo aiuto raggiunge Llirdys, il meraviglioso pianeta della sua razza. Ma la legge dei Vardda è terribile: nessuno di sangue misto può far parte della loro comunità. Il divulgare il segreto della mutazione, metterebbe altri popoli in grado di fare viaggi interstellari e significherebbe la fine dell’imperialismo commerciale dei Vardda. Con l’aiuto della ragazza vardda, Trehearne riesce a farsi accettare, ma si associa ai discepoli di Orthis, il quale voleva divulgare il segreto della mutazione e farne partecipi i popoli degli altri pianeti abitati, Terra compresa. Il romanzo è la storia della pericolosa ricerca del segreto di Orthis e delle estreme lotte dei Vardda contro pochi uomini che si battono per il progresso universale. Una storia appassionante, logica, serrata e piena di umanità e di poesia.

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L’intera poppa era adibita a laboratorio. Gran parte della delicata attrezzatura era in pezzi o per le vibrazioni dovute alla velocità o per le conseguenze di un brusco atterraggio. Trehearne non capiva nulla della massa sconvolta di metallo e di cristallo in frantumi, ma Quorn disse: «Stava studiando le radiazioni interstellari. Di gran parte di questo materiale non capisco l’uso, ma fin qui ci arrivo.»

Una sezione del laboratorio conteneva una complicata massa di serpentine e di prismi e un intricato complesso di riflettori sistemati intorno a quello che aveva dovuto essere un gran tubo centrale. Al punto focale del meccanismo vi era una piccola piattaforma fissata con cinghie. Lungo la parete erano ammucchiate delle gabbie per animali da esperimento. Qualcuno di essi c’era ancora. Erano morti, la rapida morte provocata dal freddo e dalla mancanza d’aria, ma i loro corpi erano ancora intatti. Ciò significava che erano sopravvissuti al viaggio. L’ultravelocità del volo interstellare non aveva avuto alcun effetto su di loro.

Gli uomini rovistarono per qualche tempo tra i relitti, poi Edri disse: «Non c’è nulla da fare per noi qui. Inutile tentare di ricostruire il meccanismo. Non vi riuscirono in tutti gli anni in cui la nave ancora in piena efficienza fu tenuta sotto sequestro. Orthis stesso disegnò e costruì la maggior parte degli strumenti.»

Trehearne diede ancora un’occhiata ai piccoli corpi villosi che giacevano nelle gabbie come addormentati. In un certo senso la loro esistenza rendeva doppiamente crudele il tradimento perpetrato contro Orthis: persino le bestie avevano ottenuto la libertà degli spazi stellari che era stata negata a intere generazioni di tante razze di altri mondi.

Ritornarono nel corridoio, lo ripercorsero e si spinsero oltre. Trovarono le cabine, piccole e sobrie, di un nitore monastico. Le coperte delle cuccette erano gualcite e sul cuscino era rimasta l’impronta là dove si era posata la testa di un uomo. Trehearne rabbrividì, poi passarono oltre sul ponte.

Trehearne si rese conto allora di che atto di eroismo fosse stato lanciare questa antiquata astronave fino ai confini della Galassia e oltre. Gli strumenti erano così pochi e così rudimentali. Il sistema di comando così semplificato. Vi era un sistema di bloccaggio, un pilota automatico primitivo che poteva mantenere la rotta senza l’intervento dell’uomo e pensò che soltanto questo aveva reso possibile il solitario volo di Orthis. Ma la scienza astronautica aveva fatto grandi progressi da allora.

La voce di Quorn, in un sussurro, come di chi parli in chiesa, lo raggiunse attraverso il microfono del casco. «È incredibile. Questa astronave non fu neppure costruita per volare, era un vero e proprio laboratorio spaziale. È strano il fatto stesso che sia sopravvissuta.»

Edri trasse un lungo respiro in cui parve tremare un singhiozzo. «Non abbiamo ancora trovato quanto cerchiamo. Pensate che non sia qui? Pensate che dopo tutto…» Non finì la frase.

Ricominciarono le ricerche. Fu Trehearne a trovare la porta nella paratia di poppa della cabina di comando. La spalancò e guardò dentro. Il raggio della sua torcia perforò nettamente l’antichissima oscurità.

Involontariamente Trehearne gridò.

Quorn e Edri accorsero. Era aggrappato alla parete. Sudore freddo gli colava dal viso e gli occhi erano selvaggiamente dilatati. Guardarono al di là, sopra la sua spalla.

La cabina era piccola. Era adattata a biblioteca, stipata di casse metalliche contenenti libri, alcuni dei quali erano volumi in microstampa di tipo antico, alcuni altri grossi taccuini sgualciti. Il fascio di luce tagliente come una lama di coltello li delineava tra luce intensa e ombra nera. C’era una gran tavolo, fissato al piancito e sul tavolo una scatola di metallo. Su di essa posava la mano di un uomo, con le dita aperte, lievemente incurvate sul bordo della scatola, in un’espressione di protezione e di possesso insieme, quasi si trattasse di qualcosa di caro e di prezioso.

«Oh, Dio» bisbigliò Quorn. «Guardatelo…»

Sedeva su una sedia di metallo dietro il tavolo. La testa era alzata, rivolta verso l’oblò della parete esterna attraverso cui si scorgeva il cielo buio solcato dai possenti fuochi della Galassia. La luce cruda ne rivelava chiaramente la figura. Era un vecchio. Gli anni della sua vita erano stati molti e duri. Avevano inciso il suo volto come nel ferro, scavandone profonde rughe, rilevandone precisi i lineamenti, cancellando ogni traccia di gioventù e di speranza e del riso che forse un giorno l’aveva illuminato, per forgiare una maschera di irata amarezza, e di rimprovero e, infine, di disperazione. Pareva a Trehearne di poter legger la storia di tutta una vita in quel viso fissato per sempre nel momento della morte, quando certamente quell’uomo stava gridando al dio che aveva adorato, qualunque esso fosse, una accorata domanda: Perché?

Edri si mise improvvisamente a ridere. «Orthis. È Orthis. Ha aspettato che venissimo…»

Quorn alzò una mano avvolta nel pesante guanto metallico e batté sul casco di Edri con tanta forza che Trehearne udì il tintinnio nel suo microfono. «Taci. Dannazione, Edri, taci.» Edri smise di ridere. Dopo un momento disse: «Per un attimo ho pensato…»

Trehearne mormorò. «Anch’io.»

In quell’assoluto freddo privo d’aria la morte non aveva i segni della decadenza e della trasformazione. Ma non si trattava soltanto di questa mancanza di corruzione fisica. Il fuoco era arso così profondo in quell’uomo che perfino la morte non ne aveva cancellato le tracce. Quando il fascio di luce li investì i suoi occhi aperti parvero ardere di inestinguibili braci.

A lungo i tre uomini ristettero, immobili, sulla soglia, l’uno accanto all’altro. Trehearne disse: «Desiderava, penso, che chiunque lo trovasse guardasse entro quella scatola, là sotto la sua mano.» Il lavoro di tutta la vita di Orthis, il futuro della Galassia contenuti in una piccola scatola. Lo sapevano. Ma ancora non si sentivano pronti a entrare e a togliere dalla mano di Orthis l’oggetto che vi aveva tenuto tanto a lungo. Ed era strano, pensava Trehearne, che in quel momento in cui le loro emozioni avrebbero dovuto toccare l’apice, in cui avrebbero dovuto sentire con più intensità il peso di tutti i secoli di sacrificio e di lotta che li avevano portati in quel luogo e il significato che tutto ciò avrebbe avuto, fossero troppo stanchi per sentire veramente qualcosa; solo un’ombra di rispettoso timore e un’istintiva riluttanza ad accostarsi al morto. Trehearne desiderò andarsene da quella funerea nave. Lo desiderò infine con tanta intensità che entrò e cercò di allontanare la mano di Orthis dalla scatola. Il braccio era rigido e gelato come una sbarra d’acciaio e rinunciò a muoverlo, cercando invece di trarre cautamente la scatola da sotto le dita diacce, con una gran paura che si rompessero.

Gli altri gli si erano avvicinati lentamente. La scatola non era chiusa. Sollevò il coperchio e la torcia rivelò un taccuino legato in tela. Sopra vi era un foglio sciolto vergato da alcune linee di una calligrafia fermissima. Edri lo afferrò, con un goffo gesto delle mani coperte dai guanti metallici e, tenendolo in luce, lesse con una strana voce atona: «"Mi sono aggrappato alla vita fin tanto da…".»

Edri si interruppe e ricominciò, e Trehearne pensò che Orthis ascoltasse.

«"Mi sono aggrappato alla vita fin tanto da scrivere per la prima volta tutta la mia formula, completa e semplificata, così da poter essere compresa e applicata. In essa è la libertà delle stelle. Io, il primo dei nati dalle stelle, fui cacciato dall’avidità e dalle paure dei nati dai pianeti. Ma non sarà sempre così.»

’"Io non vedrò quanto accadrà. La mia astronave è ormai giunta troppo lontano, mi è rimasto poco combustibile e sono vecchio. Così ho sistemato la chiusura ermetica in modo che si apra tra pochi minuti. Una morte veloce è assai migliore di una lenta, mentre le pompe per l’aria compressa s’arresteranno. Dopo ciò, aspetterò. Quanto ho sognato non sarà dimenticato. Un giorno verranno altri che crederanno come io ho creduto, che le stelle sono per tutti gli uomini.’"

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