1 ...6 7 8 10 11 12 ...67 Da sotto giungeva la voce di Dudley che urlava a sua madre con quanto fiato aveva in gola: «Non ce lo voglio… quella stanza mi serve… fallo uscire…!»
Harry sospirò e si stese sul letto. Ieri avrebbe dato qualsiasi cosa per essere lì. Oggi avrebbe preferito tornare nel suo ripostiglio con la lettera, piuttosto che essere lassù senza.
L’indomani mattina, a colazione, tutti erano piuttosto taciturni. Dudley era stravolto. Aveva gridato, picchiato suo padre con il bastone, aveva vomitato di proposito, preso a calci sua madre e fatto volare la tartaruga sopra il tetto della serra, e ancora non aveva ottenuto di riavere la sua camera. Harry pensava alla mattina precedente alla stessa ora e rimpiangeva amaramente di non aver aperto la lettera nell’ingresso. Zio Vernon e zia Petunia si scambiavano sguardi cupi.
Quando arrivò la posta, zio Vernon, che sembrava fare uno sforzo per essere carino con Harry, mandò Dudley a raccoglierla. Lo udirono picchiare colpi a destra e a manca con il suo bastone lungo tutto il tragitto. Poi gridò: «Ce n’è un’altra! Signor H. Potter, Cameretta, 4 Privet Drive… »
Con un grido strozzato, zio Vernon balzò dalla sedia e si precipitò nell’ingresso, con Harry alle calcagna. Zio Vernon dovette lottare e atterrare Dudley perché mollasse la lettera, il che fu reso difficile dal fatto che Harry aveva afferrato per il collo zio Vernon, da dietro. Dopo qualche minuto di grande confusione in cui a nessuno furono risparmiati i colpi di bastone di Dudley, zio Vernon si raddrizzò annaspando per riprendere fiato, con la lettera di Harry stretta in mano.
«Va’ nel ripostiglio… cioè, volevo dire, in camera tua!» intimò ansimando a Harry. «E tu, Dudley… va’ fuori!… Esci!»
Harry misurava a gran passi la sua nuova stanza. Qualcuno sapeva che aveva traslocato dal ripostiglio e apparentemente sapeva anche che non aveva ricevuto la prima lettera. Questo significava che ci avrebbe provato di nuovo? Se sì, avrebbe fatto in modo che non fallisse. Aveva un piano.
La mattina dopo, la sveglia, che era stata riparata, suonò alle sei. Harry la bloccò subito e si vestì senza far rumore. Non doveva svegliare i Dursley. Sgattaiolò giù per le scale senza accendere le luci.
Avrebbe aspettato il postino all’angolo di Privet Drive per farsi consegnare la posta del numero quattro. Il cuore gli batteva forte mentre attraversava con cautela l’ingresso diretto verso la porta.
«AAAAARRRRGGGGHHHH!»
Harry fece un salto: aveva inciampato in qualcosa di grosso e flaccido steso sullo zerbino… una cosa viva !
Di sopra si accesero le luci e con orrore Harry si rese conto che la cosa grossa e flaccida era la faccia di suo zio Vernon. Aveva dormito in un sacco a pelo, davanti alla porta di casa, per esser certo che Harry non facesse esattamente quel che aveva cercato di fare. Sbraitò contro di lui per circa mezz’ora e poi gli ordinò di andare a preparargli una tazza di tè. Harry si trasferì tristemente in cucina e al suo ritorno la posta era arrivata dritta dritta sulle ginocchia di zio Vernon. Vide tre lettere con l’indirizzo scritto con l’inchiostro verde.
«Voglio…» cominciò, ma zio Vernon le stava facendo a pezzi davanti ai suoi occhi.
Quel giorno, zio Vernon non andò in ufficio. Rimase a casa e sigillò la cassetta delle lettere.
«Vedi» spiegò a zia Petunia con una manciata di chiodi in bocca, «se non riescono a consegnarla, ci rinunceranno e basta».
«Non sono sicura che funzionerà, Vernon».
«Oh, la mente di questa gente funziona in modo strano, Petunia; non sono mica come te e me» disse lui cercando di battere un chiodo con il pezzo di dolce alla frutta che zia Petunia gli aveva appena portato.
Venerdì arrivarono non meno di dodici lettere per Harry. Poiché non passavano dalla buca delle lettere, erano state infilate sotto la porta, nelle fessure laterali e alcune persino nella finestrella della toilette al piano terra.
Zio Vernon rimase di nuovo a casa. Dopo averle bruciate tutte, tirò fuori chiodi e martello e chiuse con delle assi tutte le possibili fessure sulla porta davanti e quella del retro, cosicché non si poteva più uscire. Mentre lavorava, canticchiava un allegro motivetto, e trasaliva a ogni minimo rumore.
Sabato la cosa cominciò a sfuggire di mano. Ventiquattro lettere indirizzate a Harry trovarono il modo di entrare in casa avvolte e nascoste dentro ognuna delle due dozzine di uova che il lattaio, perplesso, aveva consegnato a zia Petunia attraverso la finestra del soggiorno. Mentre zio Vernon faceva telefonate inferocite all’ufficio postale e alla latteria, cercando qualcuno con cui prendersela, zia Petunia, in cucina, sminuzzava le lettere col frullatore.
«Ma chi diavolo è che ha tanta urgenza di parlarti?» chiese sbalordito Dudley a Harry.
Domenica mattina, zio Vernon si sedette per fare colazione con un’aria stanca e sofferente, ma felice.
«Niente posta, la domenica» ricordò agli altri tutto contento, spalmando il giornale di marmellata d’arancia. «Oggi niente maledettissime lettere…»
Mentre pronunciava queste parole, qualcosa piovve con un fruscio giù per la cappa del camino e lo colpì sulla nuca. Un attimo dopo, trenta o quaranta lettere piombarono giù come una gragnuola di proiettili. I Dursley le schivarono, ma Harry fece un balzo per cercare di prenderne una…
«Fuori! FUORI!»
Zio Vernon abbrancò Harry all’altezza della vita e lo scaraventò nell’ingresso. Una volta che zia Petunia e Dudley furono corsi fuori coprendosi il viso con le braccia, zio Vernon sbatté la porta. Da fuori, si sentivano ancora le lettere inondare la stanza, rimbalzando sulle pareti e sul pavimento.
«Questo è troppo» disse zio Vernon cercando di parlare con calma e al tempo stesso strappandosi a ciuffi i folti baffi. «Vi voglio qui tra cinque minuti, pronti a partire. Ce ne andiamo. Prendete solo qualche abito. Niente discussioni».
Aveva un’aria così minacciosa, con i baffi che gli mancavano per metà, che nessuno osò contraddirlo. Dieci minuti dopo, si erano aperti un varco strappando le assi inchiodate sulle porte ed erano saliti in macchina, dirigendosi a tutta velocità verso l’autostrada. Dudley, seduto sul sedile posteriore, stava frignando; suo padre gli aveva dato uno scapaccione perché si era attardato a cercare di imballare il televisore, il videoregistratore e il computer nella sacca da ginnastica.
Andarono. E poi continuarono ad andare. Neanche zia Petunia osava chiedere dove. Ogni tanto zio Vernon invertiva la marcia e per un po’ procedeva nella direzione opposta.
«Me li levo di torno… vedrai se non me li levo di torno» bofonchiava ogni volta che faceva questa manovra.
Per tutto il giorno non si fermarono né per bere né per mangiare. Giunta l’ora di cena, Dudley ululava dalla disperazione. In vita sua non aveva mai passato una giornata brutta come quella. Aveva fame, aveva perso cinque programmi televisivi che avrebbe voluto vedere, e non era mai rimasto tanto tempo senza far saltare in aria un alieno sul suo computer.
Finalmente, zio Vernon si fermò davanti a uno squallido albergo, alla periferia di una grande città. Dudley e Harry divisero una stanza a due letti, rifatti con lenzuola umide e muffe. Dudley cominciò a russare, ma Harry rimase sveglio, seduto sul davanzale della finestra, a fissare i fari delle macchine che passavano per la strada e a riflettere…
Il giorno dopo, per colazione, mangiarono corn-flakes stantii e toast con pomodori in scatola. Avevano appena finito, quando la proprietaria dell’albergo si avvicinò al loro tavolo.
«Chiedo scusa, ma uno di voi è il signor H. Potter? Di là sul bancone ho un centinaio di queste».
E così dicendo mostrò una lettera su cui tutti poterono leggere l’indirizzo scritto con inchiostro verde:
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