Ragni. Non ragni piccoli come quelli che si arrampicavano sulle foglie sottostanti. Ragni delle dimensioni di cavalli da tiro, con otto occhi e otto zampe, neri, pelosi, giganteschi. L’enorme esemplare che lo stava trasportando imboccò la ripida discesa, diretto verso una ragnatela a cupola, avvolta nella caligine, proprio al centro della cavità, mentre i suoi compagni si richiudevano a cerchio schioccando le chele, eccitati alla vista del suo carico.
Il ragno mollò la presa e Harry cadde a terra carponi. Poi caddero anche Thor e Ron. Thor, che non latrava più, si rannicchiò là dove si trovava. Ron era l’immagine vivente di come si sentiva Harry: la bocca spalancata in una sorta di grido senza voce e gli occhi fuori dalle orbite.
D’un tratto, Harry si rese conto che il ragno che lo aveva lasciato cadere a terra stava dicendo qualcosa. Era difficile capire cosa dicesse, perché a ogni parola faceva schioccare le chele.
«Aragog!» chiamava, «Aragog!»
E dal bel mezzo della caliginosa ragnatela a cupola, molto lentamente, emerse un ragno dalle dimensioni di un piccolo elefante. La schiena e le zampe erano grigie, e sulla testa orribile, fornita di chele, spiccavano gli occhi color bianco latte. Era cieco.
«Cosa c’è?» chiese schioccando repentinamente le chele.
«Esseri umani» rispose il ragno che aveva catturato Harry.
«È Hagrid?» chiese Aragog avvicinandosi, con i suoi occhi lattiginosi che vagavano senza posarsi su niente.
«Estranei» disse il ragno che aveva trasportato Ron.
«Uccideteli» schioccò Aragog stizzito. «Io stavo dormendo…»
«Siamo amici di Hagrid» gridò Harry. Era come se il cuore gli fosse schizzato via dal petto e gli battesse furiosamente in gola.
Clic, clic, clic, risuonavano tutt’intorno le chele dei ragni.
Aragog si fermò.
«Hagrid non ha mai mandato esseri umani nella nostra tana» disse lentamente.
«Hagrid è nei guai» disse Harry col respiro affannato. «Ecco perché siamo venuti noi».
«Nei guai?» chiese il vecchio ragno, e a Harry parve che ora lo schiocco delle sue chele esprimesse preoccupazione. «Ma perché ha mandato voi?»
Harry avrebbe voluto alzarsi in piedi, ma decise che era meglio di no; era convinto che le gambe non lo avrebbero retto. Parlò da terra, senza muoversi, con il tono più calmo che gli riuscì di tirare fuori.
«A scuola pensano che Hagrid abbia organizzato un… un… qualcosa contro gli studenti. Lo hanno portato ad Azkaban…»
Aragog schioccò le chele furiosamente e intorno gli fece eco il consesso dei ragni; era come un applauso, solo che, in genere, gli applausi non facevano sentir male Harry dalla paura.
«Ma questo è successo tanti anni fa» disse Aragog stizzito. «Anni e anni fa. Me lo ricordo bene. È stata quella la ragione per cui lo hanno costretto a lasciare la scuola. Credevano che fossi io il mostro che vive in quella che loro chiamano la Camera dei Segreti. Pensavano che Hagrid avesse aperto la Camera e mi avesse liberato».
«Ma allora tu… tu non venivi dalla Camera dei Segreti?» chiese Harry, mentre la fronte gli si imperlava di sudore freddo.
«Io?» esclamò Aragog con uno schiocco irato. «Ma io non sono nato nel castello. Io vengo da una terra lontana. Un viaggiatore mi ha dato a Hagrid quando ero un uovo. Hagrid era soltanto un ragazzo, ma si è preso cura di me, mi ha nascosto in una credenza, al castello, e mi dava da mangiare gli avanzi della tavola. Hagrid è mio buon amico, è un brav’uomo. Quando mi scoprirono e fui incolpato della morte di una ragazza lui mi protesse. Da allora vivo qui nella foresta, dove lui viene ancora a trovarmi. Mi ha anche trovato una moglie, Mosag, e vedi da te quanto è diventata numerosa la nostra famiglia! Tutto per merito di Hagrid…»
Harry raccolse tutto il coraggio che gli era rimasto.
«Allora tu non hai mai… non hai mai aggredito nessuno?»
«Mai» rispose il vecchio ragno con voce roca. «Non che non ne avessi l’istinto, ma per rispetto verso Hagrid non ho mai torto un capello a un essere umano. Il corpo della ragazza che era stata uccisa fu trovato in un gabinetto. Io non ho mai visto niente del castello, tranne la credenza dove sono cresciuto. La nostra specie ama il buio e il silenzio…»
«Ma allora… Tu conosci la cosa che ha ucciso la ragazza?» chiese Harry. «Perché, di qualsiasi cosa si tratti, è tornata e le aggressioni sono ricominciate…»
Queste ultime parole furono sommerse da uno scroscio di schiocchi e dallo scalpiccio rabbioso di molte lunghe zampe; grosse ombre nere si mossero intorno al ragazzo.
«La cosa che vive al castello» disse Aragog, «è un’antica creatura che noi ragni temiamo più di ogni altra al mondo. Ricordo che quando ebbi la percezione che la bestia scorrazzava per il castello pregai Hagrid di lasciarmi andare».
«Di che si tratta?» chiese Harry ansioso.
Ancora schiocchi e ancora scalpiccii. Sembrava che i ragni si stessero avvicinando.
«Noi non ne parliamo!» disse Aragog in tono perentorio. «Non pronunciamo nemmeno il nome di quella terrificante creatura! Non l’ho detto mai neanche a Hagrid, eppure lui me l’ha chiesto molte volte».
Harry non volle insistere, visto che i ragni lo circondavano. Sembrava che Aragog fosse stanco di parlare. Lentamente, tornò a rintanarsi nella sua ragnatela a cupola, ma gli altri continuarono ad avanzare inesorabilmente verso i due ragazzi.
«Be’, allora noi andiamo!» gridò Harry disperato ad Aragog, sentendo ormai vicinissimo, dietro di sé, il fruscio delle foglie calpestate.
«Ve ne andate?» disse Aragog lentamente. «Non credo proprio…»
«Ma… ma…»
«A Hagrid i miei figli e le mie figlie non torcono un capello perché obbediscono a un mio ordine. Ma non posso certo negargli il piacere della carne fresca, quando qualcuno sconfina nel nostro territorio e ci si offre con tanta spontaneità. Addio, amici di Hagrid!»
Harry si voltò di scatto. A pochi metri, si vide sovrastato da una compatta muraglia di ragni che avanzavano schioccando le chele, con gli occhi lucenti sulle orribili teste nere…
Afferrò la bacchetta magica, pur sapendo che non sarebbe servita a niente: erano in troppi. Ma proprio nel momento in cui cercava di tirarsi su, pronto a morire combattendo, si udì una nota lunga e penetrante e un bagliore illuminò la cavità.
Era l’automobile del signor Weasley che, rombando, scendeva lungo il pendio, a fari accesi e sirene spiegate, travolgendo i ragni al suo passaggio: molti caddero a terra riversi, e continuarono per un pezzo ad agitare in aria le zampe. Con uno stridore di freni l’automobile si fermò davanti a Harry e Ron e le portiere si spalancarono.
«Prendi Thor!» gridò Harry tuffandosi sul sedile anteriore. Ron afferrò il cane per la pancia e lo lanciò, ululante, sul sedile posteriore. Le portiere sbatterono. Ron non toccò neanche l’acceleratore, ma il veicolo non aveva bisogno di lui. Parti con un rombo, urtando altri ragni. Risalirono il pendio a tutta velocità, uscirono dalla fossa e ben presto attraversarono la foresta, con i rami che sbattevano contro i finestrini. L’automobile, con grande sagacia, seguiva il percorso migliore, scegliendo i passaggi meno angusti, lungo un tragitto che aveva tutta l’aria di conoscere bene.
Harry si voltò a guardare Ron: aveva ancora la bocca spalancata in quel grido senza voce, ma non aveva più gli occhi di fuori.
«Tutto bene?»
Ron guardava fisso davanti a sé, incapace di parlare.
Avanzavano a tutta velocità attraverso il sottobosco; Thor latrava rumorosamente sul sedile posteriore e quando passarono molto vicino a una grossa quercia Harry vide lo specchio retrovisore esterno staccarsi di schianto dall’ala. Dopo dieci minuti di quella frastornante gimcana gli alberi si fecero più radi e Harry riuscì a intravedere di nuovo qualche fazzoletto di cielo.
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