Ron abbandonò completamente il volante e tirò fuori dalla tasca posteriore la bacchetta magica.
«FERMA! FERMA!» gridò colpendo il cruscotto e il parabrezza, ma la picchiata non si arrestò e il suolo sottostante gli veniva incontro vorticosamente.
«ATTENTO A QUELL’ALBERO!» gridò Harry, cercando di afferrare il volante, ma troppo tardi…
BANG!
Con un tonfo assordante di metallo che si schiantava contro il legno colpirono il grosso tronco e piombarono a terra con un gran sobbalzo. Dal cofano accartocciato usciva vapore a fiotti; Edvige gridava di terrore; nel punto in cui Harry aveva battuto la testa si era formato un bernoccolo grosso quanto una palla da golf e, alla sua destra, Ron emise un gemito soffocato e lamentoso.
«Stai bene?» si affrettò a chiedere Harry.
«La mia bacchetta magica!» disse Ron con voce tremante. «Guarda la mia bacchetta magica!»
La bacchetta si era spezzata praticamente in due; la punta ciondolava inerte, tenuta insieme da qualche scheggia di legno.
Harry aprì bocca per dire che certamente a scuola avrebbero saputo aggiustargliela, ma non riuscì a pronunciare neanche una parola. In quel momento, infatti, qualcosa colpì l’auto dalla sua parte con la forza di un toro inferocito, scaraventandolo addosso a Ron, mentre un altro colpo altrettanto forte faceva tremare il tetto.
«Che cosa succede?»
Ron sussultò guardando attraverso il parabrezza e Harry si voltò appena in tempo per vedere un ramo grosso quanto un pitone che si abbatteva sull’auto. L’albero contro cui si erano schiantati era partito all’attacco. Aveva il tronco piegato in due e i suoi rami nodosi percuotevano ogni centimetro quadrato dell’automobile.
«AAAH!» gridò Ron mentre un altro ramo contorto ammaccava malamente una portiera; ora il parabrezza tremava sotto la raffica dei colpi e un secondo ramo grosso quanto un ariete martellava furiosamente il tetto, che sembrava sul punto di sfondarsi.
«Diamocela a gambe!» gridò Ron buttandosi di peso contro la portiera dalla sua parte; ma un attimo dopo era stato scagliato indietro tra le braccia di Harry da un pugno vigoroso sferratogli da un altro ramo.
«Siamo spacciati!» gemette mentre il tetto cedeva; ma tutt’a un tratto il pianale dell’auto cominciò a vibrare: il motore si era riacceso.
« Ingrana la retromarcia! » gridò Harry, e l’auto partì all’indietro come una freccia. L’albero stava ancora cercando di colpirli; udivano le sue radici scricchiolare come se avesse voluto svellersi dal suolo, e continuava a menare fendenti, mentre i ragazzi cercavano di mettersi in salvo.
«Per un pelo!» ansimò Ron. «Bel colpo, macchinetta!»
Ma l’auto era giunta ormai allo stremo. Con due schiocchi le portiere si spalancarono e Harry sentì che il suo sedile veniva sbalzato di lato. Poi non seppe più niente fino a quando si ritrovò sdraiato sul terreno umido. Alcuni tonfi sordi gli fecero capire che l’automobile stava sputando dal bagagliaio le loro cose; la gabbia di Edvige volò in aria e si spalancò; l’uccello ne uscì emettendo un grido stridulo e arrabbiato e volò via verso il castello senza voltarsi indietro. Poi, tutta ammaccata, scorticata e fumante, l’automobile si immerse rombando nell’oscurità, con le luci posteriori che lampeggiavano di collera.
«Torna indietro!» le gridò Ron brandendo la sua bacchetta rotta. «Papà mi ammazzerà!»
Ma quella scomparve con un ultimo sbuffo dal tubo di scappamento.
«Certo che abbiamo avuto una bella fortuna!» disse Ron mestamente chinandosi a raccogliere Crosta, il suo topo grigio. «Di tutti gli alberi contro cui potevamo andare a sbattere dovevamo scegliere proprio quello che prende a schiaffi!»
Si voltò a guardare l’annosa pianta che ancora agitava minacciosamente i suoi rami.
«Dai» disse Harry con voce stanca, «è meglio che raggiungiamo la scuola…»
Non fu proprio l’arrivo trionfale che avevano immaginato. Indolenziti, infreddoliti e pieni di lividi, presero i loro bauli e cominciarono a trascinarli su per il pendio erboso, verso i grandi portali di quercia dell’entrata principale.
«Penso che la festa sarà già cominciata» disse Ron lasciando il baule davanti agli scalini dell’entrata e avvicinandosi con circospezione per guardare da una finestra vivacemente illuminata. «Ehi, Harry, vieni a vedere… è lo Smistamento».
Harry lo raggiunse di corsa e insieme sbirciarono nella Sala Grande.
Innumerevoli candele galleggiavano a mezz’aria sopra quattro lunghi tavoli riccamente apparecchiati; i piatti e i calici d’oro scintillavano. In alto, il soffitto incantato che rifletteva la volta celeste era tutto sfavillante di stelle.
Attraverso il mare di cappelli neri a punta dell’uniforme di Hogwarts, Harry vide una lunga fila di allievi del primo anno dall’aria spaurita che stava facendo il suo ingresso. Tra questi c’era Ginny, riconoscibile per via dei capelli rossi marca Weasley. Nel frattempo la professoressa McGranitt, una strega occhialuta con i capelli raccolti in uno stretto chignon, sistemava il famoso Cappello Parlante su uno sgabello di fronte ai nuovi arrivati.
Ogni anno quel millenario cappello, tutto rappezzato, consunto e lercio, assegnava i nuovi studenti ai dormitori delle quattro Case di Hogwarts (Grifondoro, Tassorosso, Corvonero e Serpeverde). Harry ricordava bene quando lo aveva indossato lui, esattamente un anno prima, ed era rimasto impalato, ad aspettare la sua decisione, mentre quello gli bofonchiava all’orecchio i suoi commenti. Per alcuni, spaventosi secondi aveva temuto che il cappello lo avrebbe assegnato a Serpeverde, la Casa da cui, più di qualsiasi altra, erano usciti streghe e maghi malefici… ma invece era stato assegnato a Grifondoro, insieme a Ron, Hermione e a tutti gli altri fratelli Weasley. Nell’ultimo semestre, Harry e Ron avevano contribuito a far vincere a Grifondoro la Coppa di fine anno, sconfiggendo Serpeverde per la prima volta dopo sette anni.
In quel momento un ragazzo mingherlino dai capelli color topo era stato chiamato a indossare il cappello. Lo sguardo di Harry non si fermò su di lui ma si fissò sul preside, il professor Silente, che assisteva allo Smistamento seduto al tavolo delle autorità, con la lunga barba d’argento e gli occhiali a mezzaluna che brillavano sotto il riflesso delle candele. Seduto qualche posto più in là, Harry vide Gilderoy Allock, che indossava un abito color acquamarina. E all’estremità del tavolo c’era Hagrid, immenso e villoso, intento a bere avidamente dal suo calice.
«Aspetta un po’…» momorò Harry a Ron. «C’è una sedia vuota, al tavolo degli insegnanti… Dov’è Piton?»
Il professor Severus Piton era l’insegnante meno simpatico a Harry. E si dava il caso che Harry fosse lo studente meno simpatico a Piton. Crudele, sarcastico e sgradito a tutti, tranne agli studenti della sua Casa (Serpeverde), Piton insegnava Pozioni.
«Forse è malato!» disse Ron tutto speranzoso.
«Forse se n’è andato» disse Harry, «perché ancora una volta non è stato nominato insegnante di Difesa contro le Arti Oscure».
«O magari è stato licenziato !» suggerì Ron con entusiasmo. «Voglio dire, tutti lo detestano…»
«O forse» disse una voce glaciale alle loro spalle, «sta aspettando di sapere perché voi due non siete arrivati con il treno della scuola».
Harry si voltò di scatto. Davanti a loro, con l’abito nero che svolazzava nella gelida brezza, stava Severus Piton. Era magro, con la pelle giallastra, il naso adunco e i capelli neri e untuosi che gli arrivavano alle spalle, e dal suo sorriso Harry e Ron intuirono di trovarsi in guai molto seri.
«Seguitemi» intimò Piton.
Senza osare guardarsi, i due ragazzi lo seguirono su per le scale e poi nell’enorme ingresso vasto illuminato da torce fiammeggianti. Dalla Sala Grande si diffondeva un delizioso profumo di vivande, ma Piton li sottrasse al tepore e alla luce e li condusse giù per una stretta scala di pietra che portava ai sotterranei.
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