Philip Farmer - Il fiume della vita

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Il fiume della vita: краткое содержание, описание и аннотация

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In una valle sconfinata, lungo le sponde di un fiume immenso, si è radunala tutta l’umanità di tutti i tempi, miliardi di persone che hanno gia vissuto e che si sono risvegliate a una nuova vita in attesa di un destino ignoto. Questi uomini e queste donne continuano pero a conservare la propria mentalità e spesso a ripetere gli stessi errori di un tempo, cercando di dominare gli uni sugli altri. Ma la nuova esperienza può anche costituire una possibilità per raggiungere quegli obiettivi che si sono mancati prima: questa almeno e l’opinione di Francis Burton, il celebre esploratore che trascorse gran parte dei suoi anni in una sfortunata ricerca delle sorgenti del Nilo. Ora per Burton può ricominciare una nuova esaltante avventura…

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Burton si alzò e disse: — Non intendevo ferire i suoi sentimenti.

— È innamorato di quella? — chiese Wilfreda alzando lo sguardo.

— Soltanto a una donna ho detto che l’amavo — rispose Burton.

— Sua moglie?

— No. La ragazza morì prima che potessi sposarla.

— E quanto tempo è stato sposato?

— Ventinove anni, benché questo non la riguardi.

— Il Signore mi porti! Tutto quel tempo, e non le ha mai detto neanche una volta che l’amava!

— Non era necessario — replicò Burton, e si allontanò. La capanna che scelse era occupata da Monat e Kazz. Kazz stava già russando; Monat era appoggiato al gomito e fumava una sigaretta alla marijuana. Monat la preferiva alle sigarette perché aveva un sapore più vicino a quello del tabacco del suo pianeta. Però gli faceva ben poco effetto. Il tabacco invece gli produceva talvolta delle fugaci visioni dai vividi colori.

Burton decise di risparmiare il resto della sua narcogomma, come l’aveva battezzata. Si accese una sigaretta alla marijuana, sapendo che probabilmente la droga gli avrebbe aumentato ira e senso di frustrazione. Fece a Monat delle domande sul suo pianeta, Ghuurrkh. L’argomento lo interessava moltissimo, ma la marijuana lo tradì, ed egli fu trascinato lontano mentre la voce dell’extraterrestre diveniva sempre più debole…

— …ora copritevi gli occhi, ragazzi! — disse Gilchrist col suo largo accento scozzese.

Richard guardò Edward; Edward sogghignò e si mise la mano sugli occhi, ma senza dubbio stava sbirciando tra un dito e l’altro. Richard si coprì gli occhi con la mano e continuò a stare sulla punta dei piedi. Benché egli e suo fratello fossero saliti su una cassetta, dovevano allungarsi lo stesso per vedere al di sopra delle teste degli adulti davanti a loro.

Il capo della donna era già bloccato in posizione, e i suoi lunghi capelli bruni le ricadevano sul volto. Egli avrebbe voluto poter vedere l’espressione di lei mentre fissava il paniere che l’aspettava. O piuttosto, che aspettava la sua testa.

— Smettete di sbirciare, ragazzi! - disse ancora Gilchrist.

Si udì un rullio di tamburi, e poi un grido isolato: quindi la lama precipitò giù, la folla emise un urlo all’unisono, cui sì aggiunsero alcuni strilli e lamenti, e la testa cadde. Dal collo prese a sgorgare il sangue, e sembrava che non volesse più cessare. Sgorgava e sgorgava mentre il sole lo colpiva coi suoi raggi, sgorgava e sommergeva la folla, e benché egli si trovasse almeno a quindici metri dalla giustiziata, il sangue gli raggiunse le mani e gli colò tra le dita e sul volto, accecandolo e rendendo le sue labbra appiccicose e salate. Egli prese a gridare…

— Svegliati, Dick! — ripeteva Monat. Stava scuotendo Burton per le spalle. — Svegliati! Devi aver avuto un incubo!

Burton, singhiozzando e rabbrividendo, si alzò a sedere. Si strofinò le mani, poi si toccò la faccia. L’una e le altre erano bagnate. Ma di sudore, non di sangue.

— Stavo sognando — disse. — Avevo sei anni e mi trovavo nella città di Tours. In Francia, dove allora vivevamo. Il mio tutore, John Gilchrist, portò me e mio fratello Edward ad assistere all’esecuzione di una donna che aveva avvelenato la propria famiglia. Era una festa , disse Gilchrist.

«Io era eccitato, e sbirciai attraverso le dita quando egli ci raccomandò di non guardare durante gli ultimi istanti, allorché la lama della ghigliottina sarebbe scesa. Ma io guardai: dovevo farlo. Ricordo di aver provato un po’ di nausea, ma questo fu l’unico effetto che la scena raccapricciante produsse su di me. Mi sembrò di essermi trasportato in un’altra dimensione mentre stavo guardando: era come se avessi visto l’intera scena attraverso uno spesso vetro, come se fosse stata irreale. O come se fossi stato irreale io. Perciò non ne fui realmente impressionato.

Monat aveva acceso un’altra sigaretta alla marijuana. La luce di questa era sufficiente per permettere a Burton di vedere che l’extraterrestre scrollava il capo. — Che barbari! Non solo uccidevate i vostri criminali, ma tagliavate loro la testa! In pubblico! E permettevate che i bambini assistessero!

— In Inghilterra erano un po’ più umani — disse Burton. — I criminali venivano impiccati!

— Almeno i francesi consentivano agli spettatori di essere pienamente consapevoli del fatto che stavano spargendo il sangue dei loro criminali — osservò Monat. — Il sangue era sulle loro mani. Ma a quanto pare questo particolare non è venuto in mente a nessuno. Non consciamente, almeno. Così ora, dopo chissà quanti anni (sessantatré?), fumi un po’ di marijuana e rivivi un episodio che hai sempre creduto non ti avesse colpito. Ma questa volta indietreggi inorridito. Gridavi come un bambino spaventato. Hai reagito come avresti dovuto reagire quando eri bambino. Direi che la marijuana ha asportato alcuni profondi strati di repressione e ha portato alla luce l’orrore che era rimasto sepolto lì per sessantatré anni.

— Forse — mormorò Burton.

Rimase in silenzio. In lontananza cadde un fulmine, seguito dal tuono. Un minuto dopo si udì uno scroscio, e quindi un tamburellar di gocce sul tetto. La notte precedente aveva piovuto intorno a quell’ora (Burton aveva calcolato che fossero state le tre del mattino). Ed ecco che anche in quella seconda notte, circa alla stessa ora, si era messo a piovere. Il diluvio diveniva sempre più violento, ma il tetto era stato fortemente compresso e l’acqua non vi gocciolava attraverso. Un po’ però ne penetrava da sotto la parete posteriore, che si trovava a un livello più alto. Si spandeva sul pavimento ma senza bagnare le persone, perché l’erba e le foglie su cui giacevano formavano un tappeto di venti centimetri circa di spessore.

Burton chiacchierò con Monat finché la pioggia cessò, una mezz’oretta più tardi. Monat si addormentò subito; Kazz, in tutto il frattempo, non si era svegliato. Burton tentò di riaddormentarsi ma non ci riuscì. Non si era mai sentito così solo, e aveva paura di scivolare di nuovo in quell’incubo. Dopo un po’, uscì dalla capanna e si avviò verso quella scelta da Wilfreda. Sentì l’odore di tabacco prima di essere giunto alla porta. La punta della sua sigaretta brillava nel buio. Wilfreda era una figura indistinta, seduta a schiena eretta sul mucchio di erba e foglie.

— Salve — disse. — Speravo che saresti venuto.

— È l’istinto di possedere dei beni — disse Burton.

— Dubito che l’uomo abbia tale istinto — replicò Frigate. — Alcune persone, negli Anni Sessanta (1960, intendo), cercarono di dimostrare che l’uomo aveva un istinto che essi denominarono imperativo territoriale. Ma…

— Mi piace questa espressione — interruppe Burton. — Suona bene.

— Sapevo che ti sarebbe piaciuta — replicò Frigate. — Ad ogni modo Ardrey e altri cercarono di dimostrare che l’uomo non solo aveva l’istinto di rivendicare la proprietà di una determinata zona, ma addirittura discendeva da una scimmia feroce. E che l’istinto di uccidere, ereditato da quella scimmia, era ancora vivo: cosa che spiegava i confini nazionali, il patriottismo e il campanilismo, il capitalismo, la guerra, le uccisioni, i delitti e così via. Ma un’altra teoria sosteneva che tutto ciò era il risultato della cultura, cioè della continuità culturale di società dedite fin dall’inizio a lotte fra tribù, a guerre, uccisioni, delitti, e così via. Cambiata la cultura, l’ipotesi della scimmia assassina cadeva. Perché la scimmia assassina non c’è mai stata.

— Tutto ciò è molto interessante — disse Burton — e un’altra volta approfondiremo di più questa teoria. Lasciami sottolineare, però, che quasi tutti i membri dell’umanità risorta provengono da una cultura che incoraggiava la guerra, l’assassinio, il delitto, la violenza, il furto, la pazzia. Sono queste le persone in mezzo alle quali ora viviamo e con le quali dobbiamo avere rapporti. Un giorno o l’altro ci sarà forse una nuova generazione. Non lo so. È troppo presto per dirlo, dal momento che siamo qui da soli sette giorni. Ma che ci piaccia o no, ci troviamo in un mondo abitato da esseri che spessissimo si comportano come se fossero delle scimmie feroci. E ora torniamo al nostro modello!

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