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Philip Farmer: Il fiume della vita

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In una valle sconfinata, lungo le sponde di un fiume immenso, si è radunala tutta l’umanità di tutti i tempi, miliardi di persone che hanno gia vissuto e che si sono risvegliate a una nuova vita in attesa di un destino ignoto. Questi uomini e queste donne continuano pero a conservare la propria mentalità e spesso a ripetere gli stessi errori di un tempo, cercando di dominare gli uni sugli altri. Ma la nuova esperienza può anche costituire una possibilità per raggiungere quegli obiettivi che si sono mancati prima: questa almeno e l’opinione di Francis Burton, il celebre esploratore che trascorse gran parte dei suoi anni in una sfortunata ricerca delle sorgenti del Nilo. Ora per Burton può ricominciare una nuova esaltante avventura…

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Philip José Farmer

Il fiume della vita

Sebbene alcuni nomi della serie del Mondo del Fiume siano immaginari, i personaggi sono o erano reali. Magari non venite menzionati, ma ci siete anche voi.

CAPITOLO PRIMO

La moglie lo aveva stretto fra le braccia, come per tenere la morte lontana da lui.

Egli aveva esclamato: — Mio Dio, muoio!

Si era aperta la porta ed egli aveva visto, fuori, un dromedario nero gigantesco, aveva udito tintinnare i sonagli dei finimenti sfiorati dal vento caldo del deserto. Poi una enorme faccia nera sotto un gran turbante nero era apparsa nel riquadro. L’eunuco nero era entrato nella stanza come una nuvola, con una scimitarra smisurata in pugno. Il distruttore dei Piaceri, il Dissociatore. La morte era giunta.

Buio. Nulla. Il suo cuore aveva ceduto per sempre, ma egli non se ne accorse. Nulla.

Poi aprì gli occhi. Gli batteva forte il cuore. Era forte, fortissimo! I dolori della gotta ai piedi, l’atroce mal di fegato, le fitte al cuore: spariti, completamente.

C’era un tale silenzio che egli si udiva circolare il sangue in testa. Era solo in un mondo senza suono.

Nella forte luce diffusa, vedeva. Ma non capiva quel che vedeva. Quelle cose, sopra, accanto e sotto di lui, che cos’erano? Dove si trovava?

Cercò di tirarsi su a sedere e provò un confuso senso di panico. Non c’era niente, per tirarsi su a sedere: galleggiava nel nulla. Il movimento abbozzato lo spinse avanti a tuffo, ma molto lentamente come se si trovasse a bagno nella melassa fluida. A trenta centimetri dalla punta delle sue dita, una barra di metallo brillava, come arroventata, scendendo all’infinito dall’alto e continuando, sotto, all’infinito. Cercò di aggrapparsi ad essa perché era l’oggetto solido più vicino, ma qualcosa di invisibile si oppose, come se un fascio di linee di forza, premendo contro di lui, lo respingesse.

Fece una lenta capriola e la resistenza lo fermò con le dita ad una quindicina di centimetri dalla barra. Protendendosi, riuscì ad avanzare di qualche millimetro. Al tempo stesso, il suo corpo prese a ruotare sul proprio asse longitudinale. Egli aspirò l’aria con un lungo rumore raschiante. Pur sapendo che non c’erano appigli, sbatté affannosamente le braccia per cercare di agguantare qualcosa.

Adesso era a faccia «in giù». O «in su»? Comunque, in direzione opposta a quella in cui guardava al risveglio. Ma non faceva differenza; la vista, «sopra» e «sotto» di lui era identica. Egli era sospeso nello spazio, in un invisibile bozzolo che gli impediva di precipitare. Un paio di metri «sotto» il corpo di una donna, dalla pelle esangue. Era nuda e completamente glabra. Sembrava addormentata. Aveva gli occhi chiusi, il petto che si alzava e abbassava dolcemente. Le gambe unite e tese, le braccia lungo i fianchi. Ruotava lenta come un pollo sul girarrosto.

E anche lui, per la stessa forza, girava. Altri corpi nudi e glabri si susseguivano via via nel suo campo visivo, uomini, donne, bambini, tutti in file silenziose che giravano su se stesse. Sopra di lui girava il corpo nudo e senza peli di un negro.

Egli abbassò il capo per vedere il proprio corpo. Anche lui era nudo e senza peli.

Aveva la pelle liscia, i muscoli del ventre ben disegnati e salienti, le cosce piene di muscoli robusti e giovanili. Le vene, che una volta risaltavano come cunicoli bluastri di talpa, erano scomparse. Egli non aveva più il corpo del sessantanovennc malato e pieno di acciacchi che agonizzava un istante prima. Erano scomparse anche le innumerevoli cicatrici.

A questo punto si accorse che non c’erano corpi di persone anziane tra quelli che lo circondavano. Tutti sembravano sui venticinque anni, benché fosse difficile stabilire l’età esatta dal momento che la mancanza di capelli, e di peli sul pube, li faceva apparire al tempo stesso più vecchi e più giovani.

Si era sempre vantato di non aver mai conosciuto la paura. Ora invece la paura gli strozzò un urlo in gola, lo invase, spremette nuova vita da lui.

In un primo momento era rimasto attonito di essere ancora vivo. Inoltre la sua posizione nello spazio e la disposizione del nuovo ambiente gli avevano congelato i sensi. Vedeva e percepiva come attraverso una spessa finestra semiopaca. Dopo alcuni secondi qualcosa scattò dentro di lui. Poté quasi udirne il rumore, come se un schermo fosse stato sollevato d’improvviso.

Il mondo assunse una forma che egli poteva cogliere, se pur non ancora comprendere. Sopra di lui, ai lati, al di sotto fin dove giungeva il suo sguardo, galleggiavano dei corpi. Erano allineati, orizzontalmente e verticalmente. Nel senso verticale, le file erano separate mediante barre rosse, sottili come manici di scopa, una a trenta centimetri dai piedi dei dormienti, l’altra a trenta centimetri dalla loro testa. Tra corpo e corpo, sopra, sotto, e ai lati, c’era un distacco di circa due metri.

Le barre salivano da un abisso senza fondo e s’innalzavano verso un altro abisso senza fine. Quel grigiore nel quale sparivano le barre e i corpi, sopra e sotto, a destra e a sinistra, non era né cielo né terra. Non c’era nulla al limitare, tranne l’opacità dell’infinito.

Egli si trovava di fianco a un uomo bruno, di tipo toscano. Sull’altro lato c’era un’indiana, e oltre questa un pezzo d’uomo d’aspetto nordico. Solo dopo aver girato per tre volte su se stesso riuscì a capire che cosa c’era di strano in quest’ultimo. Il braccio destro, a partire da un punto proprio al di sotto del gomito, era rosso. Come se mancasse lo strato esterno di pelle.

Dopo alcuni secondi, parecchie file più in là, vide un corpo di maschio adulto privo della pelle e di tutti i muscoli del volto.

C’erano altri corpi non del tutto completi. Vide in lontananza, appena di sfuggita, uno scheletro con un guazzabuglio di organi all’interno.

Egli continuava a girare e ad osservare, mentre il cuore gli picchiava nel torace, dal terrore. Ormai sapeva di trovarsi in un locale smisurato, e che le barre metalliche irradiavano una forza che sosteneva e girava milioni, forse miliardi di esseri umani.

Ma dove?

Di certo non nell’Impero Austro-Ungarico, non a Trieste, non nel 1890.

Quel luogo non era simile ad alcun inferno o paradiso di cui egli avesse udito o letto, anche se riteneva di conoscere ogni teoria riguardante l’aldilà.

Egli era morto, ed ora si trovava di nuovo vivo. Aveva sempre schernito l’idea di una vita dopo la morte. Per una volta, doveva riconoscere di essersi sbagliato. Ma nessuno gli avrebbe rinfacciato: — Te l’avevo detto, brutto miscredente!

Perché lui solo, fra milioni e milioni, era sveglio.

Nel girare, alla velocità stimata di una rotazione completa ogni dieci secondi, vide qualcos’altro che lo fece rimanere a bocca aperta per lo stupore. Cinque file più in là c’era un corpo che, a a prima vista, sembrava umano. Ma nessun esemplare di Homo sapiens aveva tre dita e un pollice per ciascuna mano e quattro dita per ciascun piede. E neppure naso e sottili e coriacee labbra nere da cane. Né uno scroto con numerose pallottoline. Né orecchie con quelle strane spire.

Il terrore scomparve. Il cuore smise di battergli in fretta, pur non tornando ancora ad un ritmo normale. Il cervello si scongelò. Egli doveva uscire da quella situazione, in cui era impotente come una porchetta sul girarrosto. Doveva trovare qualcuno che gli spiegasse che cosa stava facendo lì, come vi era giunto, perché vi si trovava.

Decidersi e passare all’azione fu tutt’uno.

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