— Eravate a bordo, quando gli Hippae hanno attaccato?
— Sì, quando è cominciato l’incendio — rispose uno dei monaci più giovani. — Siamo partiti e ci siamo allontanati sulla prateria, con l’intenzione di tornare in seguito a soccorrere i superstiti. Non so per quanti giorni siamo rimasti là nei pressi, però abbiamo salvato soltanto una persona.
— Da parte nostra, siamo andati ogni giorno a cercare, raccogliendo in tutto poco più di una ventina di vostri confratelli, quasi tutti giovani — disse Sebastian. — Vagavano nella prateria, molto lontano dal Monastero. Può anche darsi che ve ne siano altri, visto che gli Hippae non sono più da quelle parti: si sono radunati tutti quanti intorno alla foresta palustre.
— Non possono attraversarla, vero? — chiese colui che era evidentemente l’unico superstite raccolto dal gruppo del priore Laeroa. Era pallidissimo e aveva un braccio bendato.
— A quanto ne sappiamo, non possono arrivare fin qua — dichiarò Sebastian, nel tentativo di confortare i monaci. — Ma se anche se ci riuscissero, i nostri sotterranei sono ben difesi e la nostra gente sta già costruendo armi.
— Armi! — ansimò un monaco. — Avevo sperato…
— Speravi forse che si potesse trattare con loro? — interruppe il priore Laeroa, con voce amara. — So che eri nel dipartimento della Dottrina Accettabile, fratello, ma questo è assolutamente da escludere. Sono certo che Jhamlees Zoe ha conservato la sua speranza di convertire gli Hippae fino al momento in cui lo hanno massacrato. Lo sperava fin da quando giunse su Grass, benché io abbia tentato innumerevoli volte di spiegargli che sarebbe stato come convertire le tigri al vegetarianismo.
Sebastian annuì in segno di assenso: — È una fortuna che gli Hippae non abbiano artigli come le tigri terrestri, altrimenti sarebbero in grado di arrampicarsi e noi non avremmo nessuna possibilità di salvarci. Be’, adesso avviatevi pure su per la china. Intanto chiamiamo al dimmi qualcuno che venga a prendervi.
Stancamente, i frati si alzarono e si incamminarono in fila, con lentezza, su per il lungo prato in pendenza. Dopo essersi accertati che tutti i monaci fossero in grado di camminare, Sebastian e Persun tornarono all’aeromobile: — Stanno arrivando — annunciò Roald, dopo aver chiamato aiuto.
— Bene — mormorò Sebastian. — Alcuni di quei poveracci sembrano a malapena in grado di camminare.
— Poco più di una trentina di frati superstiti, su un migliaio. — commentò Persun, nell’allontanarsi per installare un altro sismografo.
— Almeno di una cosa dovremmo essere contenti — rispose Sebastian. — Non resta niente da seppellire, degli altri novecento e passa. — Si fermò accanto alla trivella e soggiunse: — Hai notato che tranquillità? Il silenzio è assoluto.
Entrambi si guardarono attorno per alcuni istanti.
— Probabilmente il rumore della trivella ha spaventato gli animali della foresta — suggerì Persun.
— La trivella non è tanto rumorosa. Inoltre avevamo appena cominciato ad usarla, quando ci siamo accorti dell’aeromobile dei frati.
— Allora sarà stato l’aeromobile stesso.
La quiete perdurò. La foresta palustre, dalla quale provenivano di solito i gracidii degli anfibi, i richiami degli uccelli e i versi di tutti gli altri animali che l’abitavano, era assolutamente silenziosa.
— È strano — sussurrò Persun. — C’è qualcosa che non va: lo sento. — E ritornò verso l’aeromobile, infilando una mano in tasca per prendere il coltello laser.
Alle sue spalle, Sebastian gemette.
Dal margine della foresta, una testa dondolante li fissò ciecamente con occhi vacui, parzialmente scarnificata, con le ossa che scintillavano umide e bianche. Poco a poco apparvero il collo, le spalle, le braccia, e poi un odioso Hippae: un cavaliere defunto, in groppa a una cavalcatura! La bocca si aprì e si chiuse con un aspro batter di denti, e il silenzio cessò.
Dal margine della foresta sbucò un lungo schieramento di cavalieri e mostri che lanciavano strida di odio, di sfida, di morte, di scempio: gli Hippae avevano scavato un’altra galleria a settentrione!
Per afferrare l’amico che era rimasto immobile, come ipnotizzato, Persun tornò indietro, ma proprio in quel momento Sebastian fu straziato da un mostro: il suo ultimo pensiero fu che l’installazione dei sismografi era cominciata troppo tardi.
Soffocando un urlo di terrore, Persun arretrò verso l’aeromobile, menando fendenti laser. Quando zanne affilate come rasoi gli squarciarono il braccio, l’arma gli cadde su un sasso. Serrando le mascelle, si preparò all’estremo dolore, fissando gli occhi ciechi del cavaliere defunto che lo sovrastava.
All’ultimo istante, tuttavia, l’aeromobile si parò fra lui e l’Hippae, librandosi a un metro dal suolo, mentre Roald strillava e il mostro avventava invano le fauci zannute. Nel gettarsi all’indietro attraverso il portello aperto, Persun vide che altri aviomobili si libravano intorno alla patetica fila dei monaci dalle tonache verdi, alcuni dei quali giacevano morti e straziati, altri fuggivano barcollando, altri ancora si rifugiavano sui velivoli. Intanto gli Hippae, tutt’intorno, ululavano e s’impennavano, scuotendo e scrollando i cavalieri, che sembravano legati alle loro groppe.
Mentre l’aeromobile prendeva quota, Persun, col sangue che gli gocciolava fra le dita inerti e la testa che sporgeva dal portello aperto, si sforzò di non guardare i miseri resti di Sebastian. Branchi di veltri e Hippae stavano già avanzando verso la città, Roald urlava al dimmi, un mostro stava facendo a pezzi un frate, altri monaci strillavano di terrore, ma Persun riusciva a pensare soltanto che non poteva più muovere la mano che usava per intagliare.
Accanto a lui, Roald gridò per avvertirlo di qualcosa, ma Persun neppure si volse: poiché aveva la mano paralizzata, pensava che forse avrebbe preferito morire.
Intanto che centinaia di Hippae assalivano la città da settentrione, battaglioni di migerer terminarono di aprire una seconda galleria a meridione, più alta e più ampia della precedente, affinché i mostri potessero percorrerla di corsa, a schiere. Così, come era accaduto nel remoto passato alla città degli Arbai, gli Hippae sbucarono a stuoli ululanti dalla foresta e invasero l’astroporto. A meridione della Mug non incontrarono alcuna vera resistenza: i pochi soldati che presidiavano il cosmodromo, inesperti e colti di sorpresa, furono immediatamente sopraffatti.
Soltanto tre o quattro militari, più rapidi degli altri, riuscirono ad armarsi e salire su una torre di servizio dove i mostri non poterono seguirli. Morendo a dozzine fra grida d’incredulità, gli Hippae impararono ad evitare le armi.
A settentrione della Mug, la sirena suonò appena fu ricevuto l’allarme di Roald e tutti gli abitanti del Comune fuggirono nei sotterranei. Le porte, precedentemente rinforzate, furono chiuse, benché si temesse che non avrebbero potuto resistere a lungo agli attacchi degli Hippae. Contemporaneamente, James Jellico chiuse i cancelli della Capitaneria, ed ebbe inoltre la presenza di spirito di inviare messaggeri a convocare i soldati che erano rimasti a gustare la cucina dei cittadini. Pur ignorando da dove giungesse la minaccia, sapeva che i soldati, anche se pochi, erano almeno dotati di armi adeguate. Forse il serafino avrebbe potuto portare altre truppe e altre armi dalla cosmonave.
Scelta la Capitaneria come quartier generale, il serafino cominciò ad organizzare la difesa: — Due uomini ad ogni feritoia — ordinò, sudando alla vista degli Hippae che infuriavano tra le salme immote sparse per l’astroporto. — Novantacinque gradi di copertura per il fuoco automatico. Lampade degli elmetti a tutta intensità. Occhiali infrarossi. Fuoco automatico su qualunque cosa si muova.
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