Sheri S. Tepper
Cronache del dopoguerra
Stavia osservava la sua immagine quasi fosse un dipinto, dall’esterno, una figura incappucciata che camminava lungo una strada lastricata di pietre lucide a causa della pioggia dell’inizio di primavera.
A ciascun lato della via scorrevano rigagnoli d’acqua piovana producendo gorgoglii simili a risate infantili, ruscelletti divertiti dalla loro stessa natura. Le finestre illuminate dalla luce delle candele si sorridevano l’un l’altra sotto i cornicioni degli edifici inclinati protettivamente in avanti, anche se non abbastanza da impedire alla pioggia di striare le finestre. L’acqua creava l’illusione che le luci piangessero lacrime inconsolabili come accade al termine di un dramma d’amore perduto o non corrisposto.
Come al solito in quelle occasioni, Stavia si sentì come un’attrice che recita in una commedia nuova, incerta sulle battute o sul canovaccio, titubante sul finale. Se pure vi fosse stato un finale… Di fronte a eventi sorprendenti e inaspettati, la parte di lei abituata alla vita quotidiana perdeva spesso il controllo e non poteva far altro che farsi da parte su quel palcoscenico, con la mano leggermente protesa verso le quinte, aspettando l’ingresso di un altro personaggio… una Stavia più abile, più dotata di quella forza, o forse sarebbe stato meglio dire di quella grazia, che gli avvenimenti richiedevano. All’ingresso del nuovo e più maturo personaggio, la parte predominante nella vita quotidiana restava in un angolo a osservare, stupita dall’inusuale complessità dei dialoghi e della scenografia che l’altra parte, l’attrice Stavia, sembrava capace di affrontare. Così, quando, quella sera, era giunta l’inaspettata convocazione di Dawid, la parte di Stavia avvezza solo alla vita quotidiana, si era inchinata per ritrarsi dietro le quinte, lasciando spazio all’altra persona che albergava dentro di lei: la figura scura, incappucciata, che si faceva strada con passo sicuro e privo di esitazioni tra gli appartamenti illuminati, tra i mercati del pesce e della frutta, in direzione della Porta della Battaglia.
Stavia, la parte di lei che rimaneva in osservazione almeno, riservò un particolare interesse alla qualità della luce. Era il crepuscolo. Vedeva il colore grigio delle nubi e il verde cupo delle foglie. Era adatta, quella luce… ben predisposta per rendere l’atmosfera della commedia in scena. Aveva una sfumatura nostalgica. Melanconica pur senza essere profondamente deprimente. Radi raggi di sole al tramonto irrompevano a occidente attraverso la coltre di nubi, formando lunghi fasci di una luce misteriosa, come fari provenienti da un reame celeste alla ricerca di un angelo caduto, o, forse, di un’anima fuggita dall’Ade che tentava disperatamente di trovare la via dei cieli. O forse quei raggi cercavano un peschereccio là, nel mare sempre più scuro, sebbene Stavia non riuscisse a immaginare una ragione per la quale gli abitanti dei cieli potessero aver bisogno di una nave da pesca.
Nei pressi della Fontana della Dolce Fine, il cui rivestimento scolpito era lucido della pioggia che, col il suo gorgogliare, copriva la musica delle fontanelle, la strada cominciava a salire lungo la collina dal Tempio della Signora sino alla piazza delle cerimonie e le mura a nord della città. A livello della strada, sulla destra, una lunga teoria di botteghe artigianali rivolgeva sguardi ciechi al lastricato dalle finestre chiuse: fabbricanti di candele, di saponette, di coperte e rivestimenti. Sul fianco sinistro invece, a nordovest, si apriva un parco che offriva la vista di ampi spazi verdi e scuri, oltre il cono rovesciato del teatro estivo dove Stavia avrebbe recitato la parte di Ifigenia. Non recitato. Vissuto. Vissuto la parte. Come aveva detto qualcuno. Nel teatro estivo. Nel parco.
Una folata di vento marino le portò la fragranza dei fiori e dei pini della primavera ancora agli inizi. Stavia si fermò per un momento, domandandosi cosa avesse in mente il coreagrafo di quella commedia. La raffica di vento doveva ricordarle qualcosa? Quale significato aveva la sensazione di familiarità delle luci delle candele e del gorgogliare dei rigagnoli che l’avevano accompagnata assieme alla dolce tristezza della luce verdastra e alla nebbia intrisa di fievoli fragranze? In realtà era troppo presto per scoprirlo. Forse tutto ciò era predisposto solamente per sviarla, anche se si poteva, peraltro, interpretare come filo conduttore della commedia.
La strada saliva dal fondo della collina al punto in cui attraversava la Piazza dei Guerrieri, il selciato circondato da tre lati da solidi colonnati in quel momento deserti. I portici sovrastati da arcate di pietra erano antichi, strutture che risalivano a un tempo precedente alle Convulsioni. Niente del genere sarebbe stato costruito in quei giorni. Niente di così pretenzioso, di così imponente, di così inutile. La piazza destinata alle grandi cerimonie sembrava ancora più deserta di quanto lo fosse la strada che vi conduceva. Le arcate piangevano per mancanza di spettatori, le pietre lucide della piazza gemevano implorando piedi che vi marciassero sopra, rullare dei tamburi, agitarsi di stendardi e il secco rintocco delle lance picchiate sul terreno in segno di saluto. L’intera piazza singhiozzava quasi fosse un’amante abbandonata.
Oh, sì, Stavia ora poteva dirlo con certezza, quel percorso era il motivo conduttore della commedia. La piazza rendeva evidente il concetto.
Su tre lati della piazza, i colonnati. Sul quarto, le mura turrite, rinforzate da contrafforti, scintillanti di mosaici, interrotte dalla Porta dei Difensori, da quella della Battaglia, e da quella dei Figli dei Guerrieri, sormontata da un trittico di blasoni scolpiti di bronzo che rappresentavano scene di trionfo e di massacri. La Porta dei Difensori si trovava sulla sinistra di questo complesso. La giovane donna vi rimase per un lungo periodo — vedendosi come dalla prima fila di un palcoscenico, con le falde della cappa che si confondevano con il metallo istoriato — prima di protendere il suo bastone per bussare tre volte senza far troppo rumore, come le era stato richiesto. L’aspettavano.
La porticina alla base del grande portale si schiuse, la giovane donna entrò con contegno tranquillo nello stretto corridoio che si apriva al di là del battente. Nella sala dell’assemblea trovò un drappello d’onore. E, naturalmente, Dawid stesso.
Come avrebbe potuto dimenticare che aveva quindici anni? Be’, non l’aveva dimenticato. Lei ne aveva trentasette, quindi suo figlio ne aveva quindici. Aveva avuto ventidue anni quando… quando era accaduto. La pretesa che la chiamata fosse giunta inaspettata era una specie di recita, un futile tentativo di convincersi che, nonostante lei conoscesse bene il canovaccio, avrebbe potuto verificarsi un finale imprevedibile. Malgrado le visite di rito compiute da Dawid per i carnevali — nei quali gli era permesso di tornare a casa due volte all’anno — durante i quali l’iniziale timidezza provocata dalla separazione si trasformava in entusiasmo, poi nuovamente in timidezza per culminare infine, come c’era da aspettarsi, in un distacco non meno doloroso… a dispetto di tutto ciò, aveva scelto di continuare a pensare a suo figlio come aveva fatto quando aveva cinque anni ed era stato affidato alle mani dei guerrieri.
Tuttavia, adesso, doveva guardarsi dal parlargli come si fa a un bambino, poiché di fronte a lei, con la corazza scintillante e l’elmo, non c’era un bambino con le labbra imbronciate. Il bambino era svanito per sempre.
— Dawid — disse in tono formale, inchinandosi appena per mostrare il rispetto che provava nei suoi confronti. — Signori — aggiunse in segno di riguardo verso gli altri presenti. Era necessario concedere loro almeno questo, del resto c’era ben poco d’altro che potesse essere concesso loro. La donna rischiò uno sguardo frettoloso ai visi che spuntavano dalle scintillanti armature, pensando inconsciamente di vedere volti di persone che sapeva non potevano trovarsi in quel luogo. Coloro che si trovavano là erano giovani. Non vi erano visi anziani. Da nessuna parte.
Читать дальше