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Sheri Tepper: Cronache del dopoguerra

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Sheri Tepper Cronache del dopoguerra

Cronache del dopoguerra: краткое содержание, описание и аннотация

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Sono passati duecento anni dall’ultimo olocausto ma il dopoguerra dura ancora. Una parte del genere umano (le donne di Marthatown e di altri centri abitati pacifisti) hanno imparato la lezione e giurato di non riprendere più le armi, ma altri la pensano diversamente. Per molti fare la guerra è sinonimo di onore, di uno stile di vita eroico e irrinunciabile. Così, in alcuni avamposti militari disseminati sul pianeta attecchisce una civiltà aggressiva che si identifica con uomini non disposti a fare ammenda del passato. Per Stavia, una giovane dottoressa, non è facile convincere il compagno Chernon a rinunciare alla via della violenza, tanto più che i due devono compiere insieme una missione che non si prospetta facile. Presto dovranno misurarsi entrambi con mille difficoltà e pericoli, e allora non sarà Chernon il solo a dover fare una scelta radicale: anche Stavia si renderà conto che l’utopia potrebbe avere i giorni contati.

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— Ne ha già avuti tre — disse Stavia. — Dice che è abbastanza.

— Questo non lo so — disse Beneda, osservando le donne con curiosità. — Mia madre ne ha avuto solo uno. E poi ha avuto me, Susan e Liza.

— Nostra madre ha avuto Myra per prima, poi Habby, poi Byram, poi me e Jerby — le confidò Stavia — Myra ha diciassette anni e questo significa che Habby e Byram hanno dodici e tredici anni, visto che hanno quattro e cinque anni meno di Myra. Quanti anni ha tuo fratello? Come si chiama?

Beneda scosse il capo. — Ha circa la stessa età dei tuoi fratelli, penso. Si chiama Chernon. È il più anziano di tutti. Fu portato dai guerrieri quando era veramente piccolo, ma non credo che abbia ancora quindici anni. È successo qualcosa per cui non è più venuto a farci visita. Adesso va a casa di zia Erica. La mamma non parla mai di lui.

— Molte famiglie non lo fanno — suggerì Myra. — Molte famiglie cercano solo di dimenticare i propri figli a meno che non tornino a casa.

— Non voglio dimenticare Jerby — disse Stavia. — Non voglio — malgrado le sue buone intenzioni sentiva le lacrime nella voce e sapeva che gli occhi erano già umidi.

Myra si volse verso di loro improvvisamente. — Non ho detto che lo dimenticherai — disse con rabbia. — Jerby tornerà a casa due volte all’anno, per le visite, durante il carnevale. Nessuno lo dimenticherà. Ho solo detto che alcune famiglie dimenticano, questo è tutto. Non volevo dire che noi dimenticheremo. — Si volse e riprese a camminare davanti a loro.

— Forse, quando avrà quindici anni, sceglierà di tornare — la confortò Beneda. — Allora potrai andare a fargli visita, dovunque sia la casa che gli assegneranno. Potrai perfino viaggiare per andarlo a trovare se vivrà in un’altra città. Molti ragazzi tornano.

— Alcuni — rammentò Myra, volgendosi per guardarle con una smorfia delle labbra. — Alcuni lo fanno.

Avevano attraversato il distretto dei Mercati sino alla Fontana della Dolce Fine. Sylvia e Morgot presero ciascuna una coppa da un servitore spruzzandone un poco del contenuto verso la cappella della Signora in offerta alla Signora stessa, bevendone poi il rimanente, lasciando che il tempo trascorresse. Myra prese le offerte portandole al piccolo contenitore che si trovava fuori dalla soglia della cappella, poi si sedette sul rivestimento della fontana con aria accigliata. Stavia sapeva che Myra desiderava solo che tutto finisse in fretta. Non c’era necessità di fermarsi alla fontana. L’acqua aveva un valore puramente simbolico — almeno quando veniva bevuta direttamente da un pozzo come quello — e non offriva nessuna reale consolazione salvo ricordare che la fine sarebbe venuta se non la si combatteva. “Accettate il dolore” diceva la sacerdotessa alle funzioni per i defunti. “Accettate il dolore ma non coltivatelo. Con il tempo sparirà.” In quel momento era difficile ricordare quell’insegnamento, molto meno che comprenderlo.

“Tutti noi dobbiamo fare delle cose che non vogliamo fare” aveva detto Morgot. “Tutte noi che viviamo qui, nel Paese delle Donne. A volte dobbiamo fare delle cose che ci feriscono. Accettiamo il dolore perché l’alternativa sarebbe un male peggiore. Abbiamo molte cose che ci ricordano che dobbiamo fare attenzione a questo. Le cerimonie del Concilio. La recita prima del carnevale estivo. La desolazione è qui per ricordarci del dolore, e la fonte è qui per ricordarci che il dolore passerà…”

Stavia non era certa che avrebbe potuto trovare mai un vero conforto in quel pensiero, sebbene Morgot le avesse detto che ci sarebbe riuscita se solo avesse provato. Si limitò a togliere i guanti di moffola e a immergere le dita nell’acqua, facendo finta che ci fossero dei pesci nella fontana. L’acqua veniva dalla cima delle montagne dove giacevano profondi strati di neve quasi per tutto l’anno e, secondo i racconti della gente, nei fiumi c’erano perfino dei pesci. Gli allevatori ne contavano ogni anno sempre di più. Trote. E altre qualità che Stavia non ricordava.

— Dovrebbero esserci dei pesci — disse a Beneda.

— Ci sono pesci anche nella palude — disse Beneda — la mia insegnante Linda me lo ha detto.

— Una vana speranza — sibilò Sylvia che l’aveva sentita. — Sono vent’anni che ci dicono che ci sono pesci nella palude ma nessuno ne ha mai catturato uno. È ancora tutto troppo contaminato.

— Ci vorranno ancora molte decadi prima che riescano a moltiplicarsi così da poter essere pescati — disse Morgot — ma ci sono diversi nuovi esseri che vivono da quelle parti. L’ultima volta che ci sono stata ho visto un’aragosta.

— Un’aragosta!

— Sono quasi sicura che si trattasse di un’aragosta. Ne avevo viste alcune nelle altre paludi. Hanno un’armatura all’esterno. Con molte zampe e due tenaglie.

— Un’aragosta — disse Sylvia meravigliata. — Mia nonna mi raccontava una storia buffa su una delle sue nonne che mangiava le aragoste.

— La cosa che ho visto io non aveva l’aspetto di qualcosa di buono da mangiare — osservò Morgot, con una smorfia. — Era molto dura all’esterno.

— Penso che la parte commestibile sia dentro.

Deliberatamente, Morgot sollevò la tazza dall’acqua e la posò. Il servitore addetto alla fontana si fece gentilmente avanti per prenderla, rimpiazzandola con una pulita. — Condoglianze, mia signora.

— Grazie, Servitore della Fontana. Possiamo sempre sperare, nevvero?

— Certamente, mia signora; pregherò la Signora per vostro figlio. — L’uomo si volse e si occupò delle coppe. Era molto anziano, forse aveva settanta anni o più, un vecchio con i capelli bianchi e un piccolo ciuffo di barba. Strizzò l’occhio a Stavia e la bimba gli sorrise. Stavia amava gli anziani. Avevano sempre storie interessanti da raccontare sul paese controllato dalla guarnigione e sulle saghe dei guerrieri e sul loro modo di vita.

— Meglio andare — disse Morgot, guardando il sole. Il quadrante sopra la fontana diceva che era quasi mezzogiorno. Prese ancora una volta in braccio Jerby.

— Voglio camminare — annunciò il piccolo, lottando per divincolarsi. — Non sono un bambino.

— Naturalmente non lo sei — rispose lei goffamente, posandolo a terra nuovamente. — Sei un ragazzo che va a raggiungere suo padre guerriero.

La sua sagoma rotondetta le guidò lungo la collina sino alla piazza delle cerimonie. Una volta là, Morgot si inginocchiò per asciugare il volto di Jerby con un fazzoletto e tirò giù i paraorecchie del suo cappello. Lanciò a Myra uno sguardo poi si rivolse a Stavia. — Stavia, non farmi fare una brutta figura — disse.

Stavia rabbrividì. Si sentì come se Morgot l’avesse schiaffeggiata anche se sapeva che sua madre non aveva voluto redarguirla. Farle fare brutta figura? In un’occasione come quella? Naturalmente no. Mai! Non avrebbe potuto sopportare la vergogna di fare una cosa del genere. Cercò l’energia dentro di sé per darsi una scossa, risvegliando l’altra parte di se stessa, facendola uscire per prendere il controllo… si trattava di quell’altra Stavia, quella che poteva ricordare le battute della commedia rimanendo sul palcoscenico senza morire d’imbarazzo. La vera Stavia, l’osservatrice, si imbarazzava facilmente e si preoccupava troppo di apparire stupida o debole, osservava tutto in stato di shock, sentendo ogni parola ma incapace di compiere un singolo movimento. Era la prima volta che riusciva a ricordare di aver deliberatamente accantonato la parte di sé abituata alla vita quotidiana, sebbene ciò fosse avvenuto già in precedenza nei momenti di emergenza, fuori dalla sua volontà.

— Morgot! Che discorso antipatico da fare a una bambina — obiettò Sylvia. — Anche in questo momento.

— Stavia sa cosa voglio dire — replicò Morgot — sa che non voglio lamenti.

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