Sheri S. Tepper
Pianeta di caccia
Voce di uno che dice: “Grida.”
Ed io dissi: “Che griderò?”
Tutta la carne è erba.
(Isaia — XL, 6)
Erba!
Milioni di miglia quadrate di erba; innumerevoli ondate immani di erbe sferzate dal vento, mille mari di erba soleggiata, cento oceani ondeggianti, e ogni onda uno scintillio scarlatto o ambrato, smeraldino o turchese; e striature e chiazze multicolori tremanti sulle praterie come arcobaleni. Alte o basse, lanceolate o pennate, le erbe compongono geografie sempre mutevoli: torreggianti colline d’erbe più alte di dieci uomini; valli d’erba dove i prati sono morbidi come muschio sotto i piedi, e le ragazze posano il capo pensando ai loro innamorati, e i mariti giacciono a pensare alle loro amanti; boschi d’erbe dove i vecchi siedono in silenzio sul finir del giorno a sognare di tutto quello che potrebbe essere, o di quello che forse un tempo è stato. Ma soltanto i plebei, naturalmente: nessun aristocratico siederebbe mai nell’erba selvatica a sognare: per questo, ammesso che talvolta sognino, gli aristocratici hanno i loro giardini.
Erba.
Colli rubino, monti sanguigni, radure dalle infinite sfumature; e mari d’erba di zaffiro con cupe isole d’erba sormontate da grandi pennacchi verdi che sembrano alberi e sono invece erbe; e prati sconfinati di fieno argenteo in cui vagano i grandi erbivori lasciando, come mietitrici, scie di corte stoppie, dove presto ricrescono i flutti argentei di una selvaggia vegetazione lussureggiante, priva di sentieri.
E ancora monti arancioni che ardono nel tramonto, distese color albicocca splendenti nell’alba, stami sfavillanti come stelle di lustrini, fiori simili ai fragili pizzi che le vecchie prendono dai bauli per mostrarli alle nipoti:
— Ecco un pizzo fatto dalle monache tanto tempo fa.
— Cosa sono le monache, nonna?
I villaggi, cinti di mura per non essere sommersi dalle erbe, sono sparsi ed isolati nelle praterie sterminate, con case piccole, dalle mura spesse, le porte robuste, le imposte solide. Nei piccoli campi e negli orti minuscoli, cereali, ortaggi e frutta crescono rigogliosi, mentre l’erba ondeggia fuori dalle mura, simile ad un uccello che batte le ali, immenso, tanto grande quanto il pianeta, pronto a curvarsi a divorare tutto, fino all’ultima mela, l’ultima rapa, e persino l’ultima vecchia che attinge acqua al pozzo; insieme ai suoi nipoti.
— Questa, bambina mia, è una pastinaca di molto tempo fa.
— Quanto tempo fa, nonna?
Le estancia degli aristocratici sono sparse ed isolate come i villaggi: quella dei bon Damfels, quella dei bon Maukerden, e quelle di tutti gli altri bon: alte case dai tetti d’erba, in giardini d’erba, tra fontane d’erba e cortili d’erba, cinte da alte mura in cui si aprono i cancelli per i quali i cacciatori escono e rientrano. Quelli che tornano.
E sparsi ad annusare fra l’erba arriveranno i veltri, arricciando i musi, con le orecchie pendule, a passo lento, per stanare la creatura, la belva inevitabile, l’orrore notturno, la divoratrice di cuccioli. E poi, al seguito dei veltri, sulle alte cavalcature, giungeranno i cavalieri in giacca rossa, silenziosi come ombre, cavalcando, cavalcando nell’erba: il capocaccia col corno; i bracchieri con le fruste; e la comitiva dei cacciatori, alcuni in giacca rossa, altri in giacca nera, coi cappelli neri ben calcati, e gli occhi fissi innanzi, verso i veltri, cavalcando, cavalcando.
Con loro, oggi, correrà la giovane Diamante bon Damfels, detta Dimity, con gli occhi serrati per non vedere i veltri, le mani così strette intorno alle redini da sbiancare le nocche, il collo esile come uno stelo nel bianco fiocco da caccia, i lustri stivali neri, la giacca nera ben spazzolata, il cappello nero sulla testa piccola: così, per la prima volta nella sua vita, cavalcherà al seguito della muta.
E lontano, chissà dove, nella direzione seguita dai cacciatori, e forse tra i rami di un albero, giacché vi sono boschetti sparsi nelle vaste praterie, si nasconderà la volpe, la possente volpe implacabile: la volpe, la quale sa che i cacciatori arriveranno.
Si diceva fra i bon Damfels che ogni qualvolta la Caccia si svolgeva nella loro estancia, il tempo era perfetto. La famiglia se ne assumeva il merito, anche se ciò si sarebbe potuto attribuire ugualmente al Ciclo della Caccia, secondo cui la Caccia stessa avveniva sulle terre dei bon Damfels all’inizio dell’autunno, ossia in un periodo in cui il tempo era di solito perfetto. Lo stesso valeva naturalmente per l’inizio della primavera, quando, seguendo il Ciclo, si ripeteva la Caccia.
Una volta, un dignitario di Semling, il quale s’illudeva di essere un’autorità in un’ampia varietà di materie irrilevanti, aveva detto a Stavenger, l’obermun bon Damfels, che, da un punto di vista storico, la caccia al seguito era uno sport invernale.
Come era tipico, non di lui soltanto, bensì dell’aristocrazia grassiana in generale, Stavenger aveva replicato: — Qua, su Grass, pratichiamo la Caccia come si deve: in primavera e in autunno.
Il visitatore aveva capito che non sarebbe convenuto insistere, tuttavia aveva preso molti appunti in base ai quali, dopo il ritorno a Semling, aveva potuto comparare in una erudita monografia la versione classica di quello sport sanguinario, descritta nei documenti storici, con quella che si praticava su Grass. Delle dodici copie che ne erano state stampate, sopravviveva soltanto quella che era rimasta sepolta negli archivi del Dipartimento di Antropologia Comparata dell’Università di Semling.
Tutto questo era successo molti anni prima: l’autore era quasi dimenticato, e Stavenger bon Damfels non aveva più pensato a quella conversazione, perché, per quanto lo riguardava, quello che gli stranieri facevano o dicevano era sia incomprensibile sia disprezzabile, e tanto per cominciare nessuno avrebbe mai dovuto permettere a quel tipo di assistere alla Caccia. A tale proposito, i bon Damfels non avevano alcun’altra opinione.
In onore di un riverito antenato del ramo materno della famiglia, l’estancia dei bon Damfels era chiamata Klive. Secondo una tradizione famigliare, il grande Snipopean aveva scritto che i giardini della tenuta erano una delle settanta meraviglie dell’universo. Una copia del suo libro era custodita nella immensa biblioteca della estancia, dove si respiravano gli odori del cuoio, della carta e dei prodotti chimici usati dai bibliotecari per la conservazione dei volumi. Tuttavia, nessun membro vivente della famiglia aveva mai letto l’opera di Snipopean, né sarebbe stato in grado di rintracciarla fra tutti gli altri volumi, molti dei quali non erano stati aperti neppure una volta dopo essere stati archiviati. Perché mai i bon Damfels avrebbero dovuto leggere uno studio sui giardini d’erba di Klive, quando vi trascorrevano ogni giorno della loro esistenza?
Il raduno per la Caccia avveniva sempre in quella zona dei giardini d’erba conosciuta come la «prima superficie». Nella sua qualità di ospite, Stavenger bon Damfels era maestro di caccia, e per la prima battuta della stagione, come sempre avveniva sia in primavera che in autunno, aveva scelto tre membri della sua numerosa famiglia come capocaccia, primo bracchiere e secondo bracchiere. Al capocaccia aveva affidato il corno dei bon Damfels: uno strumento ricurvo e artisticamente lavorato, che emetteva soltanto suoni attutiti, benché argentini. Ai bracchieri, invece, aveva consegnato le piccole fruste, tanto delicate che occorreva badare a non spezzarle. In realtà, esse non avevano alcuna utilità: erano puramente ornamentali, come preziosi medaglioni. Nessuno avrebbe osato servirsi della frusta per sferzare un veltro o una cavalcatura. Quanto al corno, nessuno avrebbe mai pensato a suonarlo se non per annunciare il raduno rituale e il termine della Caccia. E nessuno si chiedeva quale fosse stata l’usanza in passato, né quale fosse attualmente, nell’altrove. In verità, ciò non interessava affatto a nessun bon, perché per tutti gli aristocratici l’altrove aveva cessato di esistere quando i loro antenati ne erano partiti.
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