Clifford D. Simak
Il pianeta di Shakespeare
Erano tre, sebbene qualche volta fossero uno soltanto. Quando questo avveniva, l’uno non sapeva che fossero mai stati tre, perché quell’uno era uno strano miscuglio delle loro personalità. Quando divenivano uno, la trasformazione era qualcosa di più di una semplice somma dei tre, come se nella loro comunione si aggiungesse una dimensione nuova, che rendeva la somma maggiore del totale. Solo quando i tre erano uno, inconsapevole dei tre, la fusione delle tre menti e delle tre personalità si avvicinava allo scopo del loro essere.
Erano la Nave, e la Nave era loro. Per divenire la Nave, o per tentare di diventarlo, avevano sacrificato i loro corpi e, forse, gran parte della loro unità. Forse avevano sacrificato anche le loro anime, benché su questo nessuno si dichiarasse d’accordo, e men che meno loro stessi. Quel disaccordo, bisogna tenerlo presente, non aveva nulla a che fare con la convinzione che essi avessero o non avessero un’anima.
Erano nello spazio, come c’era la Nave, ed era comprensibile, poiché erano la Nave. Nudi nella solitudine e nel vuoto dello spazio, com’era nuda la Nave. Nudi, contemporaneamente, di fronte al concetto di spazio, che non è compreso nella sua interezza, e di fronte al concetto di tempo che, in ultima analisi, è anche meno comprensibile dello spazio. Ed erano nudi, come scoprirono alla fine, anche di fronte agli attributi dello spazio e del tempo, l’infinito e l’eternità: due concetti che esorbitano dalla capacità di comprensione di ogni intelligenza.
Via via che trascorrevano i secoli, essi si convinsero che sarebbero divenuti, in assoluta verità, la Nave e null’altro che la Nave, spogliandosi di tutto ciò che erano stati in precedenza. Ma non avevano ancora raggiunto quel punto. L’umanità persisteva ancora; la memoria ancora indugiava. Talvolta, percepivano ancora le antiche identità, forse con una nitidezza attenuata, con un orgoglio meno vivido, a causa del dubbio assillante di essere stati veramente generosi, nei loro sacrifici, quanto un tempo erano riusciti a credersi. Infatti, alla fine si erano accorti, sebbene non tutti insieme, bensì uno ad uno, di essersi resi colpevoli di confusione semantica, di aver usato il termine sacrifici per nascondere e camuffare un fondamentale egoismo. Uno ad uno compresero, nei brevi intervalli in cui erano veramente sinceri con se stessi, che quei dubbi assillanti potevano avere più importanza dell’orgoglio.
Altre volte, gli antichi trionfi e gli antichi rimpianti affioravano da un tempo ormai remotissimo; e solo, senza condividerli con gli altri, ognuno di essi covava quei trionfi e quei rimpianti, ricavandone una soddisfazione che non sarebbe stato disposto ad ammettere neppure di fronte a se stesso. Talvolta stavano l’uno accanto all’altro e si parlavano. Era una cosa vergognosa, ed essi lo sapevano, perché procrastinava il momento in cui avrebbero potuto finalmente dissolvere le singole identità nell’identità unitaria creata dalla fusione di tutte e tre. Nei momenti di maggiore sincerità si rendevano conto che, così facendo, si ritraevano istintivamente da quella perdita dell’identità personale che costituisce l’unico, colossale terrore associato alla morte da tutti gli esseri senzienti.
Di solito, tuttavia, e sempre più spesso con il trascorrere del tempo, essi erano la Nave, e soltanto la Nave, e in questo trovavano soddisfazione ed orgoglio, talora una certa sacralità. Quella sacralità era una qualità che non si poteva definire a parole o delineare in un pensiero, poiché trascendeva ogni sensazione ed ogni trionfo che l’essere chiamato uomo poteva evocare, sia pure facendo appello alla sua straordinaria immaginazione. In un certo modo, era un senso di fratellanza subordinata con il tempo e lo spazio, il senso di essere una cosa sola, stranamente identificata, con il concetto dello spazio-tempo, la condizione ipotetica che costituisce lo schema fondamentale dell’universo. In tale condizione, erano affini alle stelle e vicini alle galassie, dove il vuoto e la solitudine, sebbene non perdessero la loro terribilità, divenivano un ambiente familiare.
Nei momenti migliori, quando si avvicinavano di più allo scopo finale, la Nave svaniva dalla loro coscienza, e loro soli, fusi in una sola essenza, attraversavano e superavano la solitudine e il vuoto, non più nudi, ma nativi dell’universo che ormai era la loro patria.
Shakespeare disse a Carnivoro: «È quasi giunto il momento. La vita svanisce rapida: la sento sfuggire. Devi tenerti pronto. Le tue zanne debbono trafiggere la carne nel breve momento che precede la morte. Non devi uccidermi, ma divorarmi mentre muoio. E sicuramente ricorderai tutto il resto. Non dimenticare tutto ciò che ti ho detto. Devi essere il surrogato della mia gente, poiché nessuno di loro è qui. Come migliore amico, come unico amico, non devi essere per me motivo di vergogna, mentre abbandono la vita.»
Carnivoro si acquattò e rabbrividì. «Non l’ho chiesto io,» disse. «Non voglio farlo. Non è mia abitudine uccidere i vecchi ed i moribondi. Le mie prede debbono essere sempre piene di vita e di forza. Ma da essere vivente ad essere vivente, da intelligenza a intelligenza, non posso rifiutarti. Tu dici che è una cosa sacra, che io compio una missione sacerdotale, e questo nessuno può ricusarlo, benché ogni mio istinto grida per la ripugnanza di divorare un amico.»
«Spero,» disse Shakespeare, «che la mia carne non sia troppo tigliosa, il sapore troppo forte. Spero che ingerirla non ti causi conati di vomito.»
«Non vomiterò,» promise Carnivoro. «Sarò d’animo forte. Mi comporterò impeccabilmente. Farò tutto ciò che tu chiedi. Eseguirò tutte le istruzioni. Potrai morire in pace e dignità, sapendo che il tuo ultimo e più fedele amico provvederà a compiere le mansioni della morte. Tuttavia permettimi di farti osservare che questa è la cerimonia più strana e più macabra di cui ho sentito parlare nella mia esistenza lunga e mal spesa.»
Shakespeare ridacchiò, fiaccamente. «Te lo concedo,» disse.
Carter Horton ritornò in vita. Gli pareva di trovarsi in fondo a un pozzo. Il pozzo era colmo di un’oscurità lanuginosa e, preso da una paura, da una collera improvvise, cercò di liberarsi della lanugine e dell’oscurità, di uscire dal pozzo. Ma la tenebra si avvolse intorno a lui, e la lanugine divenne difficile da rimuovere. Dopo un po’, rimase immobile. La sua mente scattava esitante, mentre cercava di capire dov’era e come poteva essere finito lì: ma non c’era nulla che potesse fornirgli indicazioni. Non aveva ricordi. Mentre giaceva nel silenzio, si accorse con stupore di essere comodo e caldo, come se fosse stato sempre lì, comodo e caldo, e soltanto in quel momento si accorgesse della comodità e del tepore.
Ma attraverso quelle sensazioni, provava un senso frenetico d’urgenza, e si domandò perché. Gli pareva che bastasse continuare così, si disse, eppure qualcosa dentro di lui gridava che non era abbastanza. Tentò ancora una volta di scalare il pozzo, di scrollare via la confusione e l’oscurità, e non vi riuscì, ricadde esausto.
Era troppo debole, si disse: e perché mai doveva essere così debole?
Cercò di gridare per attirare l’attenzione, ma la voce lo tradì. All’improvviso ne fu lieto perché, fino a quando fosse divenuto più forte, si disse, sarebbe stata forse un’imprudenza attirare l’attenzione. Perché non sapeva dove fosse, o che cosa o chi poteva essere in agguato lì vicino, e con quali intenzioni.
Tornò ad abbandonarsi nell’oscurità e nella confusione, sicuro che l’avrebbero nascosto a ciò che poteva essere in agguato; e provò un vago senso di divertimento nell’accorgersi di una lenta collera filtrante, all’idea di essere costretto a raggomitolarsi per sfuggire all’attenzione.
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