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Clifford Simak: Il pianeta di Shakespeare

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Clifford Simak Il pianeta di Shakespeare

Il pianeta di Shakespeare: краткое содержание, описание и аннотация

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Un’astronave in viaggio ormai da tempo verso mondi abitabili, guidata da un centro di comando che riunisce le menti di tre esseri umani del passato, corrispondenti all’equipaggio conservato in animazione sospesa per tutto il volo siderale. Purtroppo al termine del viaggio, cioè all’arrivo su un pianeta abitabile, l’unico superstite è Carter Horton. Per fortuna ha con sè il robot Nicodemus, che è in grado a seconda dei casi di attingere a numerosi cervelli positronici, riservando qualche sorpresa. Ma su quel pianeta c’è anche qualcun altro…

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Penso come un uomo in carne ed ossa , si disse, non come un cervello disincarnato. La carne mi sta ancora addosso; le ossa non si dissolvono.

Lo scienziato stava ancora parlando. Soprattutto , diceva, dobbiamo astenerci dal considerare automaticamente la manifestazione come qualcosa di mistico o spirituale.

Era solo una di queste cose semplici , disse la gran dama, lieta di chiudere la discussione.

Dobbiamo tenere ben presente nella nostra coscienza , disse lo scienziato, che non vi sono cose semplici nell’universo. Non vi sono eventi da accantonare con leggerezza. Vi è uno scopo, in tutto ciò che avviene. Vi è sempre una causa, di questo si può essere certi, e con il tempo vi sarà anche l’effetto.

Vorrei , disse il monaco, poterne essere altrettanto sicuro.

Vorrei , disse la gran dama, che non fossimo atterrati su questo pianeta. È un posto sgradevole.

7.

«Devi moderarti,» disse Nicodemus. «Non troppa roba. La vichyssoise, una fettina d’arrosto, metà delle patate. Devi renderti conto che il tuo apparato digerente è rimasto inattivo per centinaia d’anni. Ibernato, certamente, non soggetto al deterioramento: ma anche così, deve avere la possibilità di riacquistare tono. Tra pochi giorni potrai riprendere a mangiare normalmente.»

Horton guardò il cibo. «Dove hai preso questa roba?» chiese. «Certamente non è stata portata dalla Terra.»

«Dimenticavo,» disse Nicodemus. «Naturalmente non potevi saperlo. Abbiamo a bordo il modello più efficiente di convertitore di materia che fosse stato fabbricato al tempo della nostra partenza.»

«Vuoi dire che ti limiti a buttarci dentro un po’ di sabbia?»

«Be’, non esattamente. Non è tanto semplice. Ma è l’idea giusta.»

«Aspetta un momento,» disse Horton. «C’è qualcosa che non va. Io non ricordo nessun convertitore di materia. Ne parlavano, naturalmente, e sembrava ci fosse qualche speranza di realizzarli, ma a quanto rammento io…»

«Vi sono certe cose,» disse Nicodemus, un po’ precipitosamente, «che non conosci. Una è che, dopo che venisti ibernato, non partimmo immediatamente.»

«Vuoi dire che ci fu un ritardo?»

«Ecco, sì. Per la verità, un notevole ritardo.»

«Per l’amor del cielo, non fare tanto il misterioso. Quanto tempo?»

«Be’, cinquant’anni o giù di lì.»

«Cinquant’anni! Perché cinquant’anni? Perché metterci in ibernazione e poi attendere cinquant’anni?»

«Non c’era una vera urgenza,» disse Nicodemus. «Si stimava che il progetto avrebbe avuto una durata molto lunga, un paio di secoli, o forse un poco di più, prima che una nave ritornasse annunciando di aver scoperto pianeti abitabili, e un ritardo di cinquant’anni non sembrava eccessivo, se permetteva lo sviluppo di certi sistemi che avrebbero dato una maggiore speranza di successo.»

«Come un convertitore di materia, per esempio.»

«Sì, anche. Non era assolutamente indispensabile, certo, ma comodo: e aggiungeva un certo margine di sicurezza. E soprattutto c’erano certe caratteristiche tecnologiche della nave che, se fosse stato possibile realizzarle…»

«E vennero realizzate?»

«Molte sì,» disse Nicodemus.

«Non ci avevano mai detto che vi sarebbe stato un ritardo,» replicò Horton. «Né a noi né agli altri equipaggi che iniziarono l’addestramento a quel tempo. Se qualcuno degli altri equipaggi l’avesse saputo, ce l’avrebbe riferito.»

«Non c’era bisogno che lo sapeste,» disse Nicodemus. «Forse vi sarebbero state obiezioni illogiche da parte vostra, se ve lo avessero detto. Ed era importante che gli equipaggi umani fossero pronti, quando le navi fossero state in grado di partire. Vedi, eravate tutti persone eccezionali. Forse ricordi con quanta cura vi scelsero.»

«Dio sì. I computer ci analizzarono per calcolare i fattori di sopravvivenza. I nostri profili psicologici furono misurati non so mai quante volte. Ci fecero quasi consumare, con i loro test fisici. E ci impiantarono quel gingillo telepatico nel cervello perché potessimo parlare con Nave, e questa fu la cosa più fastidiosa. Mi sembra di ricordare che impiegammo mesi per imparare ad usarlo adeguatamente. Ma perché fare tutto questo, per poi metterci in ghiaccio? Avremmo potuto semplicemente aspettare.»

«Si poteva fare così,» disse Nicodemus, «mentre voi invecchiavate di anno in anno. Uno dei fattori che avevano determinato la selezione degli equipaggi non era stata esattamente la gioventù, ma un’età non troppo elevata. Non avrebbe avuto senso inviare nello spazio dei vecchi. Posti in ibernazione, non invecchiavate. Il tempo non era un fattore, per voi, perché non lo è nell’ibernazione. Così come venne fatto, gli equipaggi restavano pronti, con le facoltà e le capacità non offuscate dal tempo che occorreva per eliminare le pecche. Le navi sarebbero potute partire quando veniste ibernati, ma grazie a quei cinquant’anni di attesa, le probabilità favorevoli a voi ed alle navi crebbero considerevolmente. I sistemi di supporto per i cervelli vennero perfezionati ad un punto che sarebbe apparso impossibile cinquant’anni prima, il collegamento tra cervelli e nave furono resi più efficienti e sensibili, quasi infallibili. I sistemi ibernanti furono migliorati.»

«Non so che pensare,» disse Horton. «Comunque, credo che, personalmente, per me non abbia comportato la minima differenza. Se non puoi vivere la tua vita nel tuo tempo, immagino non abbia più importanza quando la concludi. Mi rammarico soltanto di essere rimasto solo. Tra me ed Helen c’era qualcosa, e avevo simpatia per gli altri due. Immagino, anche, di provare un certo senso di colpa perché loro sono morti ed io ho continuato a vivere. Tu dici di avermi salvato la vita perché ero nel cubicolo numero uno. Se non fossi stato lì, qualcun altro sarebbe vissuto, e ora io sarei morto.»

«Non devi sentirti colpevole,» gli disse Nicodemus. «Se c’è qualcuno che dovrebbe sentirsi in colpa sono io, ma non è così, perché la ragione mi dice che mi sono dimostrato efficiente, che ho agito al limite della tecnologia attuale. Ma tu… tu non c’entravi. Tu non hai fatto nulla: tu non hai avuto parte nella decisione.»

«Sì, lo so. Tuttavia, non posso fare a meno di pensare…»

«Mangia la minestra,» disse Nicodemus. «L’arrosto si fredda.»

Horton buttò giù una cucchiaiata di vichyssoise. «È buona,» disse.

«Certo che lo è. Ti ho detto che posso essere un abile chef.»

« Posso essere ,» fece Horton. «È un modo strano di esprimersi. O sei uno chef, o non lo sei. Ma tu dici di poterlo essere. Lo hai detto un’altra volta: che puoi essere un ingegnere. Non che lo sei, ma che puoi esserlo. Mi sembra, amico mio, che tu possa essere troppe cose. Un momento fa hai lasciato capire di essere anche un buon tecnico dell’ibernazione.»

«Ma il modo in cui lo dico è esatto,» protestò Nicodemus. «Proprio così. Adesso sono uno chef, e posso essere un ingegnere o un matematico o un astronomo o un geologo…»

«Non c’è bisogno che tu sia un geologo. Il geologo di questa spedizione sono io. Helen era il biologo e il chimico.»

«Un giorno,» disse Nicodemus, «potrebbe esserci bisogno di due geologi.»

«È ridicolo,» disse Horton. «Nessuno, uomo o robot, può essere tutto quello che dici di essere o di poter essere. Occorrerebbero anni di studi, e nell’apprendere ogni nuova specializzazione o disciplina, perderesti parte dell’addestramento precedente. Inoltre, tu sei semplicemente un robot di servizio, non specializzato. Parliamoci chiaro, la capacità del tuo cervello è limitata, e il tuo sistema reattivo è relativamente insensibile… Nave ha detto che eri stato scelto apposta per la tua semplicità… perché c’era ben poco che poteva guastarsi, in te.»

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