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Clifford Simak: Il pianeta di Shakespeare

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Clifford Simak Il pianeta di Shakespeare

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Un’astronave in viaggio ormai da tempo verso mondi abitabili, guidata da un centro di comando che riunisce le menti di tre esseri umani del passato, corrispondenti all’equipaggio conservato in animazione sospesa per tutto il volo siderale. Purtroppo al termine del viaggio, cioè all’arrivo su un pianeta abitabile, l’unico superstite è Carter Horton. Per fortuna ha con sè il robot Nicodemus, che è in grado a seconda dei casi di attingere a numerosi cervelli positronici, riservando qualche sorpresa. Ma su quel pianeta c’è anche qualcun altro…

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Horton si aggrappò alla ringhiera in una stretta mortale, come se quella fosse l’ultima realtà rimastagli. Il suo corpo doleva per la tensione, ma la mente conservava ancora un po’ della lucidità innaturale, sebbene la sentisse dileguare. Si raddrizzò, con l’aiuto di Nicodemus. Scrollò il capo e sbatté le palpebre per schiarirsi la vista. I colori, sul mare d’erba, erano cambiati. La foschia purpurea s’era offuscata in un crepuscolo fondo. Il bagliore bronzeo dell’erba s’era appiattito in una sfumatura plumbea, e il cielo era nero. Una ad una, uscirono le prime stelle.

«Che succede, Carter?» chiese ancora il robot.

«Vuoi dire che non l’hai sentito?»

«Qualcosa,» disse Nicodemus. «Qualcosa di spaventoso. Mi ha colpito, ed è guizzato via. Non il mio corpo, ma la mente. Come se qualcuno avesse sferrato un pugno mortale e avesse mancato il colpo, sfiorandomi appena la mente.»

6.

Il cervello che un tempo era stato un monaco era spaventato, e la paura portò con sé la sincerità. Una sincerità da confessionale, pensò; sebbene mai, nel confessionale, fosse stato sincero come ora.

Che cos’era? chiese la gran dama. Cos’abbiamo sentito?

Era la mano di Dio , le rispose, che ha sfiorato la nostra fronte.

È ridicolo , disse lo scienziato. È una conclusione raggiunta senza dati adeguati ed osservazioni coscienziose.

E allora , chiese la gran dama, tu cosa ne pensi?

Non ne penso nulla , disse lo scienziato. Ne prendo atto, ecco tutto. Una manifestazione. Forse dallo spazio lontano. Non un prodotto di questo pianeta. Ho la netta impressione che non fosse di origine locale. Ma fino a quando non avremo altri dati, non dobbiamo tentare di caratterizzarlo.

È la più grande sciocchezza che abbia mai sentito , disse la gran dama. Il nostro collega, il prete, ha fatto di meglio.

Non un prete , disse il monaco. Ve l’ho detto e ripetuto. Un monaco. Un semplice monaco. Un povero monaco.

Ecco cos’era stato, si disse, continuando a valutare sinceramente se stesso. Non era mai stato di più. Un monaco, meno di niente, che aveva avuto paura della morte. Non il sant’uomo che era stato creduto e acclamato, ma un vigliacco tremante che aveva paura di morire, e un uomo che aveva paura di morire non poteva essere santo. Per i veri santi, la morte deve essere la promessa di un nuovo principio: e ripensandoci, sapeva che non aveva mai saputo vederla se non come la fine, il nulla.

Per la prima volta, fu in grado di ammettere ciò che prima non aveva mai potuto, ciò che non aveva mai avuto l’onestà di ammettere… che aveva approfittato dell’occasione di diventare servitore della scienza per sottrarsi alla paura della morte. Eppure sapeva di aver ottenuto soltanto una dilazione, perché, anche come Nave, non poteva sottrarsi completamente alla morte. O almeno non poteva essere certo di sfuggirle totalmente, perché vi era la possibilità, la possibilità remota, che lo scienziato e la gran dama avevano discusso secoli prima, mentre lui si teneva fuori dal dialogo, timoroso di parteciparvi: con il passare dei millenni, se fossero sopravvissuti tanto a lungo, forse loro tre sarebbero divenuti pura mente. E se fosse stato così, pensò, allora avrebbero potuto diventare, nel senso più stretto, immortali ed eterni. Ma se questo non fosse accaduto, allora si sarebbero trovati a fronteggiare la realtà della morte, perché l’astronave non poteva durare per sempre. Con il tempo, per una ragione o per l’altra, sarebbe divenuta un relitto usurato e malconcio alla deriva tra le stelle, e poi null’altro che polvere nel vento cosmico. Ma questo non sarebbe avvenuto ancora per molto tempo, si disse, afferrandosi alla speranza. Con un minimo di fortuna, la Nave poteva sopravvivere per milioni di anni, e questo avrebbe potuto dare a loro tre il tempo necessario per diventare pura mente… se, in realtà, era possibile diventarlo.

Perché questa paura soverchiante della morte? si chiese. Perché questo rifuggirne, non come un uomo normale, ma come ossessionato dalla ripugnanza al solo pensiero? Forse perché aveva perduto la fede in Dio o forse, il che era anche peggio, non aveva mai raggiunto la fede in Dio? E se era cosi, perché si era fatto monaco?

Poiché era partito con sincerità, si diede una risposta sincera. Aveva scelto di farsi monaco come un’occupazione (non come una vocazione, ma come un’occupazione) perché temeva non solo la morte, ma anche la vita, e pensava che fosse un compito facile, che gli offrisse un rifugio contro il mondo di cui aveva paura.

In una cosa, tuttavia, si era ingannato. Quella del monaco non si era rivelata una vita facile: ma quando l’aveva scoperto, aveva avuto ancora paura… paura di ammettere il proprio errore, paura di confessare, fosse pure a se stesso, la menzogna che stava vivendo. Perciò aveva continuato ad essere un monaco, e con l’andar del tempo, in un modo o nell’altro (molto probabilmente per puro caso), aveva acquisito una reputazione di pietà e di devozione che costituiva l’invidia e insieme l’orgoglio degli altri monaci, benché alcuni, talvolta, gli rivolgessero osservazioni insinuanti. Con l’andar del tempo, sembrava che molta gente venisse a sapere di lui… forse non per ciò che aveva fatto (e in verità aveva fatto ben poco), ma per ciò che pareva rappresentare, per il suo modo di vivere. Quando vi ripensava, adesso, si chiedeva se non era stata una concezione errata… se la sua pietà, anziché nascere dalla devozione, come tutti avevano l’aria di credere, non derivava dalla paura e, a causa di quella paura, dai suoi tentativi inconsci di autoannientamento. Un topolino tremante, pensò, che era divenuto santo per i suoi tremiti.

Ma comunque stessero le cose, aveva finito per diventare un simbolo dell’Età della Fede in un mondo materialista, e uno scrittore che l’aveva intervistato lo aveva descritto come un uomo del medioevo, superstite nei tempi moderni. Il profilo uscito da quell’intervista, pubblicato su una rivista ad alta tiratura e scritto da un uomo acuto che, per amore degli effetti drammatici, non aveva lesinato in fatto di abbellimenti, aveva dato l’avvio ad uno slancio che, dopo parecchi anni, l’aveva innalzato alla grandezza, come un uomo semplice che aveva l’intuizione necessaria per ritornare alla fede fondamentale e la forza dell’anima che propugnava quella fede contro le incursioni del pensiero umanistico.

Sarebbe potuto diventare abate, pensava, in un empito d’orgoglio: forse più di un abate. E quando si era accorto dell’orgoglio, aveva compiuto solo un fiacco tentativo di reprimerlo. Perché l’orgoglio, e in fondo la sincerità, erano tutto ciò che gli restava. Quando l’abate era stato chiamato da Dio, gli era stato fatto capire, in molti modi sottili, che avrebbe potuto prendere il suo posto. Ma all’improvviso, di nuovo impaurito, questa volta della responsabilità, aveva supplicato di poter restare nella sua semplice cella, alle sue semplici mansioni, e poiché l’ordine lo teneva in grandissima considerazione, la sua petizione era stata accolta. Tuttavia, quando vi ripensava in tutta sincerità, ammetteva il sospetto che aveva sempre represso. La petizione era stata accolta perché l’ordine lo stimava tanto, o perché, conoscendolo troppo bene, aveva pensato che non sarebbe stato un buon abate? Data la pubblicità favorevole che la sua nomina avrebbe fruttato, data la sua vasta rinomanza, l’ordine era stato costretto a fargli almeno l’offerta? E c’era stato un sentito respiro di sollievo, quando lui aveva rifiutato?

La paura, pensò… un uomo ossessionato per tutta la sua esistenza dalla paura, se non della morte, almeno della vita? Forse, dopotutto, non c’era stato bisogno di temere. Forse, dopo tanta paura, non vi era stato nulla da temere. Più probabilmente, erano state la sua incapacità, la sua mancanza di comprensione a spingerlo verso la paura.

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