Frederik Pohl - Uomo più

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Questo nuovo romanzo di Frederik Pohl ci presenta il primo tentativo di colonizzazione del pianeta Marte: non il Marte sognato dalla fantascienza di cinquant’anni fa, ma il Marte che oggi conosciamo attraverso i risultati trasmessi dalle sonde spaziali.
Il protagonista della colonizzazione è Uomo Più: l’uomo più gli ausili che gli possono offrire i computer, e il protagonista del romanzo è il primo di questi uomini. Macchine sofisticate collegate al suo corpo hanno sostituito i suoi organi con altri organi artificiali, ed egli è ora adatto a vivere nell’atmosfera rarefatta di Marte, a trarre dal sole l’energia che gli occorre. Ma i suoi ex simili, le persone umane normali, non lo riconoscono più come uno di loro, e Marte, considerato come un’avventura e un episodio, si rivela il suo esilio e la sua casa.
Nominato per i premi Hugo, Campbell e Locus in 1977.

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— Non sono mai andata a letto con nessuno, quando tu eri in orbita!

— Lo so, Dorrie. Pensavo che era molto bello da parte tua. Lo pensavo, perché non sarebbe stato giusto, vero? Voglio dire, io di occasioni ne avevo poche. Il vecchio Yuli Bronin non era il mio tipo. Ma adesso è diverso. È come se fossi di nuovo in orbita, ma è peggio. Non c’è neppure Yuli! Non solo non ho una ragazza, non ho neppure l’armamentario per combinare qualcosa, se anche la ragazza l’avessi.

Dorrie rispose, depressa: — Tutto questo lo so. Che cosa posso dirti?

— Puoi dirmi che sarai una buona moglie! — ruggì il cyborg.

Questo la spaventò: Roger aveva dimenticato cosa poteva sembrare la sua voce. Dorrie si mise a piangere.

Tese la mano per sfiorarla, ma poi la lasciò cadere. A che serviva?

Oh Cristo, pensò. Che pasticcio. Lo consolava solo il pensiero che il colloquio si era svolto lì, nell’intimità di casa loro, non pianificato in anticipo, e segreto. Sarebbe stata insopportabile la presenza di chiunque altro: ma noi, naturalmente, avevamo intercettato ogni parola.

CAPITOLO DODICESIMO

DUE SIMULAZIONI E UNA REALTÀ

Roger dalle dita di rame aveva fatto saltare più di una valvola. Aveva mandato in corto un’intera scatola di interruttori di circuiti. Ci vollero venti minuti perché tornasse la luce.

Per fortuna il 3070 aveva energia di riserva per la sua memoria, perciò i nuclei magnetizzati non furono cancellati. I calcoli che erano in corso risultarono compromessi. Sarebbe stato necessario rifarli di nuovo. La sorveglianza automatica rimase fuori uso per molto tempo, dopo che Roger se ne fu andato.

Una delle prime persone che vennero a sapere cos’era successo fu Sulie Carpenter, che sonnecchiava nell’ufficio accanto alla sala computer e attendeva che finisse la simulazione riguardante Roger. La simulazione non finì. I campanelli d’allarme che indicavano l’interruzione dell’elaborazione delle informazioni la svegliarono. Le fulgide lampade fluorescenti erano spente, e soltanto quelle rosse a incandescenza irradiavano un chiarore fioco e deprimente.

Il primo pensiero di Sulie fu per la sua preziosa simulazione. Passò venti minuti con i programmatori, a studiare i risultati in chiaro parziali, augurandosi che tutto andasse bene, poi vi rinunciò e si precipitò nell’ufficio di Vern Scanyon. E allora scoprì che Roger era scappato.

Intanto la corrente era ritornata: era tornata mentre lei faceva a due per volta i gradini della scala di sicurezza. Scanyon era già al telefono, e chiamava ad una riunione d’emergenza le persone che considerava colpevoli. Fu Clara Bly a riferire a Sulie quel che aveva fatto Roger; uno ad uno, via via che entravano gli altri, vennero messi al corrente. Don Kayman era l’unico personaggio di rilievo che si trovasse fuori dal progetto: lo rintracciarono mentre guardava la televisione nel condominio dei religiosi. Kathleen Doughty salì dalla stanza di fisioterapia, trascinando con sé Brad, tutto umido e con la pelle arrossata: aveva cercato di sostituire con un’ora di sauna una notte di sonno. Freeling era a Merritt Island, ma non c’era molto bisogno di lui; altri cinque o sei entrarono e si lasciarono cadere, depressi o preoccupati, sulle sedie di pelle intorno al tavolo delle conferenze.

Scanyon aveva già ordinato di far decollare l’elicottero da ricerche delle Forze Aeree, per cercare tutto intorno al progetto. Le telecamere dell’apparecchio frugarono la superstrada, le strade d’accesso, i parcheggi, i campi e la prateria, e mostravano ciò che inquadravano sul televisore a muro in fondo alla stanza. La polizia di Tonka era stata messa in allarme, con l’ordine di cercare uno strano essere che sembrava un diavolo e che correva a settanta chilometri orari: e questo aveva messo nei guai il sergente di turno di Tonka. Il sergente commise un grave errore. Chiese all’ufficiale del servizio di sicurezza del progetto se aveva bevuto troppo. Dieci secondi dopo, con la testa piena delle visioni di se stesso mandato a dirigere il traffico a Kiska, il sergente stava impartendo ordini via radio a tutti i veicoli e ai poliziotti a piedi. Gli ordini erano di non arrestare Roger, di non avvicinarlo neppure: si doveva solo trovarlo.

Scanyon voleva un capro espiatorio. — La ritengo responsabile, dottor Ramez! — abbaiò allo psichiatra dello staff. — Lei e il maggiore Carpenter. Come avete potuto permettere che Torraway combinasse una cosa simile senza preavvertirci?

Ramez rispose, accattivante: — Generale, le avevo detto che Roger era instabile, per quanto riguardava la moglie. Ecco perché avevo chiesto qualcuno come Sulie. Roger aveva bisogno di un altro oggetto su cui fissarsi, qualcuno legato direttamente al progetto…

— Non è andata molto bene, vero?

Sulie smise di ascoltare. Sapeva benissimo che dopo sarebbe toccato a lei, ma tentava di riflettere. Al di là della scrivania di Scanyon vedeva le inquadrature mobili trasmesse dall’elicottero. Erano espresse schematicamente: le strade erano linee verdi, i veicoli punti azzurri, gli edifici gialli. I pochi pedoni erano di un rosso vivo. Ora, se uno di quei punti rossi avesse improvvisamente cominciato a muoversi alla velocità di un veicolo azzurro, sarebbe stato Roger. Ma Roger aveva avuto tutto il tempo di allontanarsi dall’area che l’elicottero andava controllando.

— Dia ordine di cercare in città, generale, — disse Sulie all’improvviso.

Scanyon aggrottò la fronte, ma prese il telefono e impartì l’ordine. Non ebbe il tempo di posare il ricevitore: c’era una chiamata che non poteva rifiutare.

Telly Ramez si alzò dalla sedia accanto al direttore e girò intorno alla tavola, accostandosi a Sulie Carpenter, che non alzò gli occhi dalla trascrizione della simulazione. Ramez attese, paziente.

La chiamata per il direttore era del presidente degli Stati Uniti. Gli altri presenti lo avrebbero capito dal sudore che colava dalle tempie di Scanyon, anche se non avessero visto la faccia di Dash sul minuscolo schermo. Debolissima, la voce arrivava fino a loro: — … ho parlato con Roger e mi è sembrato… non so, disinteressato. Ci ho pensato parecchio, Vern, e poi ho deciso di chiamarla. Procede tutto bene?

Scanyon deglutì. Si guardò intorno e poi, bruscamente, rialzò i petali insonorizzanti intorno al microfono; l’immagine rimpicciolì, si ridusse alla grandezza di un francobollo. La voce svanì, perché il suono era stato trasferito a un altoparlante parabolico puntato direttamente verso la testa di Scanyon, e le parole del generale venivano inghiottite dagli schermi a forma di petalo. Comunque, i presenti non faticarono a seguire la conversazione: sembrava scritta a chiare lettere sulla faccia di Scanyon.

Sulie alzò gli occhi dalla trascrizione e li fissò su Telly Ramez. — Fagli interrompere la telefonata, — disse, impaziente. — So dov’è Roger.

Ramez disse: — A casa di sua moglie.

La giovane donna si soffregò gli occhi, stancamente. — Penso che per questo non ci occorra una simulazione, no? Mi dispiace, Telly. Forse non lo tenevo saldamente in pugno come credevo.

Avevano ragione, naturalmente: noi lo sapevamo già. Non appena Scanyon smise di parlare con il presidente, l’ufficio del servizio di sicurezza chiamò per riferire che i microfoni nascosti nella camera da letto di Dorrie avevano captato il rumore che Roger aveva fatto entrando dalla finestra.

Gli occhietti gialli di Scanyon sembravano sul punto di riempirsi di lacrime. — Passate il sonoro, — ordinò. — E inquadrate la casa. — Poi prese con il telefono una linea esterna e fece il numero di Dorrie.

Dall’altoparlante giunse uno squillo, poi un rumore metallico e la voce inespressiva del cyborg che gracchiò: — Pronto. — E un momento dopo, sommesso ma altrettanto inespressivo: — Cristo.

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