Comunque, era divorato dalla preoccupazione. La voce era tutta calore e cameratismo quando chiese a Roger come andavano le cose. Aveva bisogno di qualcosa? Era necessario prendere a calci qualcuno per sistemare le cose? — Va tutto benissimo, signor presidente, — disse Roger, che si divertiva a lasciare che i suoi occhi trasformassero il presidente in un Babbo Natale, con la barba bianca e il berretto rosso orlato di pelliccia, e un sacco di doni intangibili sulle spalle.
— È sicuro, Roger? — insistette Dash. — Non dimentichi quel che le ho detto: qualunque cosa voglia, basta che la chieda a me.
— Le farò un fischio, — promise Roger. — Ma vado benissimo. Aspetto con ansia il lancio. — E aspetto che tu molli il telefono, pensò, annoiato dalla conversazione.
Il presidente aggrottò la fronte. Gli interpretatori di Roger cambiarono immediatamente l’immagine: Dash era ancora Babbo Natale, ma nero come l’ebano e con zanne enormi. — Non è troppo sicuro di sé, per caso? — domandò Dash.
— Beh, e come potrei accorgermene, se lo fossi? — chiese Roger in tono ragionevole. — Ma non credo. Lo domandi allo staff, qui: quelli possono informarla sul mio conto molto meglio di me.
Riuscì a concludere la conversazione dopo un breve scambio di frasi; sapeva che il presidente era insoddisfatto e vagamente turbato, ma non gli importava troppo. Le cose che gli importavano diventavano sempre meno numerose, pensò Roger. E poi era stato sincero: aspettava veramente il lancio con ansia. Avrebbe sentito la mancanza di Sulie e di Clara. In fondo alla sua mente era lievemente preoccupato dei pericoli e della durata del viaggio. Ma era euforico al pensiero di ciò che avrebbe trovato al suo arrivo lassù: il pianeta di cui era diventato l’abitante ideale.
Riprese la chitarra e ricominciò con Segovia, ma non riuscì bene come avrebbe desiderato. Dopo un po’ si rese conto che il dono del timbro assoluto era anche uno svantaggio: la chitarra di Segovia non era stata intonata a un perfetto la 440, era bemolle di qualche Hertz, e la sua corda del re era quasi di un quarto di tono relativamente ancora più bemolle. Scrollò le spalle — le ali di pipistrello svolazzarono, a quel gesto — e posò lo strumento.
Per un momento restò seduto sulla poltrona che usava per suonare, con lo schienale diritto e senza braccioli, e lasciò campo libero ai propri pensieri.
Qualcosa lo turbava. E quel qualcosa si chiamava Dorrie. Suonare la chitarra era piacevole e rilassante, ma oltre quel piacere v’era una fantasticheria: lui stesso, seduto sul ponte di una barca a vela, insieme a Dorrie e a Brad, si faceva prestare con disinvoltura la chitarra di Brad e li sbalordiva tutti.
Misteriosamente, tutti i processi della sua vita culminavano in Dorrie. Suonare la chitarra aveva lo scopo di allietare Dorrie. L’orrore del suo aspetto stava nel fatto che avrebbe deluso Dorrie. Tutte queste cose avevano perduto in parte la loro carica di sofferenza, ed egli poteva esaminarle con una serenità che solo poche settimane prima sarebbe stata impossibile: ma erano ancora lì, sepolte profondamente dentro di lui.
Tese la mano verso il telefono, e poi la ritrasse.
Chiamare Dorrie non era abbastanza. Aveva già provato.
Ciò che voleva veramente era vederla.
Naturalmente era impossibile. Non era autorizzato a lasciare il palazzo del progetto. Vern Scanyon si sarebbe infuriato. Le sentinelle l’avrebbero bloccato sulla porta. La telemetria avrebbe rivelato immediatamente ciò che stava facendo: la sorveglianza elettronica a circuito chiuso l’avrebbe individuato ad ogni passo, tutte le risorse del progetto sarebbero state mobilitate per impedire che se ne andasse.
E chiedere l’autorizzazione era inutile. Neppure chiedendola a Dash: il massimo che poteva accadere era che il presidente impartisse un ordine e che Dorrie venisse recapitata nella sua stanza, costretta e furibonda. Roger non voleva che Dorrie venisse costretta a venire da lui, ed era sicuro che non gli avrebbero permesso di andare da lei.
D’altra parte…
D’altra parte, rifletté, che bisogno aveva del permesso?
Pensò per un minuto, assolutamente immobile sulla seggiola.
Poi ripose meticolosamente la chitarra nell’astuccio e si mosse.
Per prima cosa si chinò verso la parete, strappò una presa di corrente e vi infilò un dito. L’unghia di rame era solida come una moneta. Le valvole saltarono. Le lampade della stanza si spensero. Il dolce fruscio e gli scatti delle bobine dei registratori rallentarono e cessarono. La stanza divenne buia.
C’era ancora calore, e come luce era sufficiente, per gli occhi di Roger. Vedeva abbastanza bene per potersi staccare di dosso i cavi della telemetria. Uscì dalla porta prima ancora che Clara Bly, intenta a versare la panna in una tazza di caffè, si voltasse verso il ronzio del quadro dei monitor.
Roger aveva ottenuto un risultato migliore di quanto sperava: anche nel corridoio le luci si erano spente. C’erano alcune persone, lì fuori, ma nell’oscurità non potevano vedere nulla. Roger le superò e scese la scala di sicurezza a quattro gradini alla volta, prima che gli altri si accorgessero della sua fuga. Il suo corpo funzionava con scioltezza ed eleganza. Le lezioni di ballo imposte da Kathleen Doughty avevano dato buoni frutti: Roger scese le scale a passo di danza, varcò una porta con un plié , balzò lungo un corridoio e uscì nella fredda aria notturna prima che l’agente del servizio di sicurezza alla porta alzasse la testa dal televisore.
Roger era all’aperto, e correva sulla superstrada, verso la città di Tonka, a settanta chilometri orari.
La notte era rischiarata da luci che egli non aveva mai visto. In alto c’era una massa compatta di nubi, cumuli-strati che arrivavano veloci dal nord e dense nuvole più alte: tuttavia, riusciva a scorgere fiochi bagliori là dove filtravano le radiazioni delle stelle più fulgide. Ai lati della strada, la prateria dell’Oklahoma brillava lugubremente dello scarso calore residuo assorbito durante il giorno, punteggiata da chiazze luminose là dove c’erano case o fattorie. Le macchine, sulla superstrada, erano seguite da grandi piume di luce, luminose nel punto in cui uscivano dai tubi di scappamento, più rosse e cupe quando le nubi di gas caldo si espandevano nell’aria gelida. Quando entrò in città, Roger vide ed evitò i rari pedoni, tutti simili a luminose figure di Halloween, che splendevano cupamente del calore irradiato dei loro corpi. Gli edifici intorno avevano catturato un po’ di calore, alla fine della giornata, e altro ne riversavano dal riscaldamento centrale: e splendevano come lucciole.
Si arre’stò all’angolo della strada di casa sua. C’era una macchina con due uomini a bordo, parcheggiata di fronte alla porta. Un segnale d’allarme gli lampeggiò nel cervello, e la macchina diventò un carro armato, con l’howitzer puntato contro la sua testa. Non era un problema. Roger cambiò rotta e attraversò correndo i cortili posteriori, scalando staccionate e insinuandosi attraverso i cancelli; e arrivato a casa sua estroflesse le unghie di rame e si arrampicò su per il muro esterno.
Era ciò che voleva fare. Non soltanto evitare gli uomini a bordo della macchina ferma lì fuori, ma realizzare una fantasia: il momento in cui avrebbe fatto irruzione nella stanza di Dorrie passando dalla finestra, per sorprenderla… a far cosa?
Nella realtà, la sorprese mentre stava seguendo un film in seconda serata alla televisione. Aveva i capelli impiastricciati di crema colorante, ed era a letto, appoggiata ai cuscini, e mangiava tutta sola un piatto di gelato.
Quando egli spinse la finestra che non era bloccata ed entrò strisciando, Dorrie si girò verso di lui.
E urlò.
Non fu soltanto un grido: fu un’immediata crisi isterica. Dorrie rovesciò il gelato e schizzò giù dal letto. Il televisore cadde e si schiantò sul pavimento. Singhiozzando, Dorrie si appoggiò contro la parete più lontana, con gli occhi convulsamente chiusi, coprendoseli con i pugni.
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