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Frederik Pohl: Uomo più

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Frederik Pohl Uomo più

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Questo nuovo romanzo di Frederik Pohl ci presenta il primo tentativo di colonizzazione del pianeta Marte: non il Marte sognato dalla fantascienza di cinquant’anni fa, ma il Marte che oggi conosciamo attraverso i risultati trasmessi dalle sonde spaziali. Il protagonista della colonizzazione è Uomo Più: l’uomo più gli ausili che gli possono offrire i computer, e il protagonista del romanzo è il primo di questi uomini. Macchine sofisticate collegate al suo corpo hanno sostituito i suoi organi con altri organi artificiali, ed egli è ora adatto a vivere nell’atmosfera rarefatta di Marte, a trarre dal sole l’energia che gli occorre. Ma i suoi ex simili, le persone umane normali, non lo riconoscono più come uno di loro, e Marte, considerato come un’avventura e un episodio, si rivela il suo esilio e la sua casa. Nominato per i premi Hugo, Campbell e Locus in 1977.

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Frederik Pohl

Uomo più

CAPITOLO PRIMO

UN ASTRONAUTA E IL SUO MONDO

Devo parlarvi di Roger Torraway. Un singolo essere umano non sembra particolarmente importante, quando al mondo ve ne sono otto miliardi. Non è più importante, per esempio, di un singolo microchip in una memoria. Ma anche un chip può essere decisivo, se contiene un bit essenziale, e Torraway era importante proprio in questo senso.

Era un bell’uomo, si potrebbe dire. E anche famoso. O meglio, lo era stato.

Una volta, Roger Torraway era rimasto lassù in cielo per due mesi e tre settimane, insieme ad altri cinque astronauti. Erano tutti sporchi, «arrapati» e soprattutto annoiati. Ma non era questo che lo aveva reso famoso. Questo era solo qualcosa che meritava due frasi nel notiziario televisivo delle sette, in una serata noiosa.

Lui, invece, era diventato davvero famoso. Nel Bechuanaland e nel Belucistan e a Buffalo, la gente aveva conosciuto il suo nome. Il Time gli aveva dedicato una copertina. Non tutta a lui. Torraway aveva dovuto dividerla con il resto del suo team nel laboratorio spaziale, perché erano stati loro che avevano avuto la ventura di salvare gli astronauti sovietici, quando questi erano tornati sulla Terra senza i reattori di direzione.

Dunque, erano diventati tutti famosi da un giorno all’altro. Torraway aveva ventotto anni, quando era accaduto, e aveva appena sposato un’insegnante di scultura in ceramica, che aveva gli occhi verdi e i capelli neri. Dorrie, là sulla Terra, era ciò che lo accendeva di desiderio e di nostalgia; e Rog, là in orbita, aveva fatto diventare celebre anche Dorrie, una cosa che lei apprezzava molto.

Ci voleva qualcosa di speciale perché la moglie di un astronauta riuscisse a far notizia. Ce n’erano tante, e sembravano tutte eguali. Gli esponenti della stampa erano convinti che la NASA le scegliesse tra le aspiranti al titolo di Miss Georgia. Avevano tutte lo stesso aspetto, come se, non appena si fossero tolte il costume da bagno per indossare qualcosa d’altro, fossero pronte a mostrarvi, da brave majorettes, come si fa a far roteare la mazza, oppure a recitare «The Female of the Species». Dorrie Torraway aveva l’aria un po’ troppo intelligente per cose del genere, anche se indubbiamente era abbastanza carina. Era l’unica tra le mogli degli astronauti che si fosse conquistata ampio spazio tanto su Ladies’ Home Journal («Dodici regali natalizi che potete modellare voi stesse») e su Ms. («I figli rovinerebbero il mio matrimonio»).

Rog era perfettamente d’accordo sull’idea di non avere una famiglia numerosa. Era sempre perfettamente d’accordo con tutto ciò che voleva Dorrie, perché a Dorrie teneva troppo.

Da questo punto di vista, Rog Torraway era un po’ inferiore ai suoi colleghi, che avevano scoperto nel programma spaziale la possibilità di ottenere particolari successi con le donne. Per il resto, era esattamente come gli altri. Intelligente, sano, sveglio, simpatico, dotato di un’eccellente preparazione tecnica. La stampa, per diverso tempo, aveva pensato che anche gli astronauti venissero costruiti con il sistema della catena di montaggio. Erano disponibili entro una gamma di una ventina di centimetri in altezza e di una dozzina d’anni d’età, e si poteva scegliere tra quattro diversi colori della pelle, dal cioccolato al latte fino all’incarnato vichingo. I loro hobby erano gli scacchi, il nuoto, la caccia, il volo, il paracadutismo, la pesca e il golf. Sapevano frequentare con disinvoltura senatori e ambasciatori. Quando si dimettevano dal programma spaziale, venivano assunti da grandi società aerospaziali, oppure abbracciavano cause perse che avevano bisogno di nuovo slancio pubblicitario. Erano pagati molto bene. Gli astronauti erano prodotti preziosi. Erano tenuti in altissima considerazione non soltanto dai mass media e dall’uomo della strada. Anche noi attribuivamo loro un valore molto elevato.

Gli astronauti rappresentavano un sogno. Il sogno aveva un valore inestimabile per l’uomo della strada, soprattutto se si trattava di una puzzolente strada di Calcutta, dove intere famiglie dormivano sul marciapiedi e si svegliavano all’alba per fare la coda e ricevere una ciotola di cibo gratuito. Era un mondo arido e sporco, e lo spazio gli conferiva un po’ di bellezza e d’emozione. Non molto, ma sempre meglio che niente.

Gli astronauti formavano una piccola comunità unita e chiusa, dalle parti di Tonka, Oklahoma, come le famiglie dei giocatori di baseball. Quando un uomo partiva per la sua prima missione nello spazio, era come se entrasse in Serie A. A partire da quel momento, erano rivali e compagni di squadra. Si facevano guerra a vicenda per avere la precedenza, e si aiutavano e si davano consigli l’un l’altro. Era la dicotomia tipica dell’atleta professionista. Nessuna vecchia riserva seduta in panchina e intenta a fissare il giovincello che scendeva in campo aveva mai provato un’invidia più rabbiosa e morbosa di quella dell’astronauta di riserva in un programma di atterraggio su un pianeta, quando guardava il suo Numero Uno che indossava la tuta.

Rog e Dorrie si erano inquadrati benissimo nella comunità. Facevano facilmente amicizia. Erano abbastanza eccentrici per spiccare, e non abbastanza strambi da destare preoccupazioni. Se Dorrie non aveva figli, era gentile con i figli delle altri mogli. Quando Vic Samuelson restò tagliato fuori dal contatto radio per cinque giorni, dall’altra parte del Sole, e Verna Samuelson fu presa dalle doglie del parto prima del termine, Dorrie si portò a casa i tre figlioletti della coppia. Nessuno dei tre aveva più di cinque anni; due portavano ancora i pannolini, e Dorrie li cambiava, senza lagnarsi, mentre altre mogli di astronauti si occupavano della casa di Verna, e Verna metteva al mondo il suo quarto figlio all’ospedale della NASA. Alle feste per Natale Rog e Dorrie non erano mai i più sbronzi, e non erano mai i primi ad andarsene.

Erano una coppia simpatica.

Vivevano in un mondo simpatico.

E in questo erano fortunati, e lo sapevano. Il resto del mondo non era altrettanto piacevole. Piccole guerre si susseguivano in Asia, in Africa, e in America Latina. L’Europa occidentale qualche volta era strozzata dagli scioperi e spesso bloccata dalla scarsità di questo e di quello, e quando veniva l’inverno di solito tremava di freddo. La gente era affamata, spesso era furiosa, e c’erano poche città dove una persona poteva avere il coraggio di uscire sola di notte. Ma Tonka continuava ad essere antipermissiva e molto sicura, e gli astronauti (e i cosmonauti e i sinonauti) visitavano Mercurio e Marte, oltre alla Luna, nuotavano negli aloni delle comete e giravano in orbita intorno a giganti gassosi.

Torraway aveva compiuto cinque missioni importanti. La prima volta aveva volato con una delle navette per rifornire lo Spacelab, ai primi tempi dopo il blocco, quando il programma spaziale cominciava a rimettersi in piedi.

Poi aveva passato ottantun giorni nella stazione spaziale della seconda generazione. Quello era stato il suo gran momento, l’occasione che gli aveva fruttato la gloria sulla copertina di Time. I russi avevano lanciato un equipaggio umano su Mercurio: i membri della missione c’erano arrivati, erano sbarcati, ed erano decollati per tornare indietro, e tutto era andato alla perfezione, fino a quel momento: ma dopo, niente era andato bene. I russi avevano sempre avuto difficoltà con i razzi stabilizzatori… parecchi dei primi cosmonauti avevano cominciato a girare su se stessi, non erano riusciti a fermarsi, e avevano vomitato disperatamente dentro alle loro cosmonavi. Questa volta avevano avuto la stessa difficoltà e avevano consumato le riserve per le correzioni dell’assetto di volo.

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