Frederik Pohl - Uomo più

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Questo nuovo romanzo di Frederik Pohl ci presenta il primo tentativo di colonizzazione del pianeta Marte: non il Marte sognato dalla fantascienza di cinquant’anni fa, ma il Marte che oggi conosciamo attraverso i risultati trasmessi dalle sonde spaziali.
Il protagonista della colonizzazione è Uomo Più: l’uomo più gli ausili che gli possono offrire i computer, e il protagonista del romanzo è il primo di questi uomini. Macchine sofisticate collegate al suo corpo hanno sostituito i suoi organi con altri organi artificiali, ed egli è ora adatto a vivere nell’atmosfera rarefatta di Marte, a trarre dal sole l’energia che gli occorre. Ma i suoi ex simili, le persone umane normali, non lo riconoscono più come uno di loro, e Marte, considerato come un’avventura e un episodio, si rivela il suo esilio e la sua casa.
Nominato per i premi Hugo, Campbell e Locus in 1977.

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Ed era marziano, nel senso che la forma si adegua alla funzione. Era stato foggiato per Marte. E in un certo senso, era già su Marte. I laboratori del Grissom avevano le più splendide vasche biologiche marziane del mondo, e Hartnett eseguiva i suoi esercizi ginnici su sabbie d’ossido di ferro, in una camera a pressione dove il peso del gas era ridotto a dieci millibar, soltanto l’uno per cento di quello esistente all’esterno delle doppie pareti di vetro. La temperatura delle molecole rarefatte di gas intorno a lui era mantenuta a quarantacinque gradi sotto zero. Le batterie di lampade ultraviolette inondavano la scena con l’esatto spettro solare di una giornata marziana d’inverno.

Se il luogo in cui Hartnett si trovava non era veramente Marte, gli somigliava abbastanza da ingannare persino un marziano (se mai i marziani erano esistiti), eccettuato un particolare. A parte quel particolare, Ras Thavas di E.R. Burroughs o un mollusco di Wells avrebbero potuto scuotersi dal sonno, guardarsi intorno e convincersi di essere davvero su Marte, in una giornata di tardo autunno, alle latitudini medie, poco dopo il levar del sole.

Vi era un’unica anomalia, cui era impossibile ovviare. Hartnett era soggetto alla normale gravità terrestre anziché a quella fortemente inferiore che esisteva sulla superficie di Marte. Gli ingegneri erano arrivati a calcolare quanto sarebbe costato installare l’intera vasca a bordo di un jet modificato, e lanciarlo in una parabola calcolata per simulare, almeno per dieci o venti minuti alla volta, gli esatti pesi marziani. Poi avevano deciso di non farne nulla a causa dei costi; e pensandoci bene, avevano stimato, considerato e infine giudicato poco importanti gli effetti di quell’unica anomalia.

L’unica cosa di cui nessuno aveva paura era che il nuovo corpo di Hartnett fosse troppo debole per sopportare le tensioni e gli sforzi cui sarebbe stato sottoposto. Era già in grado di sollevare pesi da duecento chili. Quando fosse giunto veramente su Marte, avrebbe potuto portare più di mezza tonnellata.

In un certo senso, sulla Terra Hartnett era più orrendo di quanto sarebbe stato su Marte, perché i suoi apparecchi telemetrici erano mostruosi quanto lui. Le ventose per il controllo del polso, della temperatura e della resistenza della pelle erano fissate alle spalle e alla testa. Vi erano sonde che penetravano sotto la coriacea pelle artificiale per misurare la circolazione e le resistenze interne. Dallo zaino spuntavano le antenne della trasmittente, simili a una ramazza da contadino. Tutto ciò che avveniva dentro al suo organismo era continuamente misurato, cifrato e trasmesso ai registratori a banda larga, che giravano alla velocità di cento metri al secondo.

Il presidente bisbigliò qualcosa. Roger Torraway si sporse, involontariamente, e afferrò la fine della frase: — … può sentire quello che diciamo qui?

— No, finché non ci inseriamo nella sua rete di comunicazioni, — rispose il generale Scanyon.

— Uh-uh, — fece adagio il presidente: ma non disse ciò che forse avrebbe voluto dire se il cyborg non avesse potuto udirlo. Roger lo capì. Lui stesso doveva scegliere con cura ciò che diceva quando il cyborg poteva sentirlo, e aveva finito per censurare le sue parole anche quando il vecchio Hartnett non era collegato. Semplicemente, non era giusto che un essere il quale aveva bevuto birra e aveva generato un figlio potesse essere così brutto. Ogni parola che avesse un senso coerente sarebbe stata un’offesa.

Il cyborg sembrava intenzionato a continuare in eterno l’esercizio: ma qualcuno che aveva contato le cadenze: — «Uno, due, uno, due» — si interruppe, e anche il cyborg si fermò. Si alzò, metodicamente e abbastanza lentamente, come se si trattasse di un nuovo passo di danza. Con un’azione riflessa che non aveva più una funzione, si passò il dorso della mano coriacea sulla fronte liscia come plastica e priva di sopracciglia.

Nell’oscurità, Roger Torraway si spostò, in modo da vedere meglio, al di là del celebre profilo imperioso del presidente. E anche di profilo, notò che Deshatine aggrottava leggermente la fronte. Roger passò un braccio intorno alla vita della moglie, e pensò che cosa si doveva provare ad essere il presidente di trecento milioni di americani in un mondo così suscettibile e pronto al tradimento. Il potere che si irradiava dall’uomo davanti a lui era in grado di scagliare bombe a fusione in ogni angolo del mondo, nel volgere di novanta minuti. Era il potere della guerra, il potere della rappresaglia, il potere del danaro. Era stato il potere presidenziale che aveva portato alla realizzazione del progetto Man Plus. Il Congresso non aveva mai discusso lo stanziamento dei fondi, e conosceva solo a grandi linee ciò che accadeva; la legge relativa era stata presentata come «Progetto di legge per la creazione di mezzi supplementari per l’esplorazione spaziale a discrezione del presidente».

Il generale Scanyon disse: — Signor presidente, il comandante Hartnett sarebbe felice di mostrarle alcune delle capacità delle sue protesi. Sollevamento pesi, salti. Quello che lei preferisce.

— Oh, ha già faticato abbastanza, per oggi, — sorrise il presidente.

— Bene. Allora proseguiremo, signore. — Parlò a bassa voce nel microfono del comunicatore e poi si rivolse di nuovo al presidente: — La prova di oggi consiste nel riparare un corto circuito nell’apparecchio di comunicazione, nelle condizioni del campo. Abbiamo stimato che il lavoro richiederà sette minuti. Un gruppo di nostri specialisti, lavorando con tutti i loro utensili nel loro laboratorio, ha ottenuto una media di circa cinque minuti, perciò se il comandante Hartnett ci riesce nel tempo ottimale, sarà una dimostrazione del perfetto controllo motorio.

— Sì, capisco, — disse il Presidente. — E adesso cosa sta facendo?

— Aspetta, signore. Porteremo la pressione a centocinque millibar, in modo che possa udire e parlare un po’ più facilmente.

Il presidente osservò: — Credevo disponeste di apparecchi per parlare con lui anche nel vuoto assoluto.

— Beh, uhm, sì, signore, li abbiamo. Abbiamo avuto qualche lieve difficoltà. Attualmente, il nostro sistema fondamentale di comunicazione nelle condizioni marziane normali è visivo, ma contiamo di far funzionare presto il sistema a voce.

— Sì, lo spero anch’io, — disse il presidente.

Allo stesso piano della vasca, trenta metri al di sotto della saletta in cui si trovavano, uno studente laureato che fungeva da assistente di laboratorio obbedì a un segnale e aprì una valvola: non comunicava con l’atmosfera esterna, ma con i serbatoi del gas atmosferico marziano normale, che era già pronto nel cassone. Poco a poco la pressione salì con un sibilo sottile, sempre più intenso. L’aumento della pressione fino a 150 millibar non modificò in alcun modo il comportamento di Hartnett. Il suo corpo ricostruito era quasi insensibile ai fattori ambientali. Era in grado di tollerare allo stesso modo i venti artici, il vuoto assoluto e una giornata afosa all’equatore terrestre, con l’aria a 1080 millibar e un’altissima percentuale di umidità. Per lui andava bene tutto: o non andava bene affatto, perché Hartnett aveva riferito che il suo nuovo corpo era indolenzito, pieno di tic e di pruriti. Avrebbero anche potuto aprire le valvole e lasciare entrare nella vasca l’aria normale, ma poi sarebbero stati costretti ad estrarla tutta con le pompe, prima del prossimo test.

Finalmente il sibilo cessò, e udirono la voce del cyborg. Era acuta come quella d’una bambola parlante. — Grazzzie. Basssta cosssì. — La bassa pressione alterava la sua dizione, soprattutto perché non aveva più una trachea e Una laringe normali. Dopo un mese vissuto da cyborg, l’abitudine di parlare gli era divenuta estranea, perché stava perdendo quella di respirare.

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