Frederik Pohl - Uomo più

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Questo nuovo romanzo di Frederik Pohl ci presenta il primo tentativo di colonizzazione del pianeta Marte: non il Marte sognato dalla fantascienza di cinquant’anni fa, ma il Marte che oggi conosciamo attraverso i risultati trasmessi dalle sonde spaziali.
Il protagonista della colonizzazione è Uomo Più: l’uomo più gli ausili che gli possono offrire i computer, e il protagonista del romanzo è il primo di questi uomini. Macchine sofisticate collegate al suo corpo hanno sostituito i suoi organi con altri organi artificiali, ed egli è ora adatto a vivere nell’atmosfera rarefatta di Marte, a trarre dal sole l’energia che gli occorre. Ma i suoi ex simili, le persone umane normali, non lo riconoscono più come uno di loro, e Marte, considerato come un’avventura e un episodio, si rivela il suo esilio e la sua casa.
Nominato per i premi Hugo, Campbell e Locus in 1977.

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— Beh, tanto per cominciare, che progetti ha per i prossimi due anni? Sicuramente non avrà intenzione di star qui ad aspettare che Roger Torraway torni a casa.

Dorrie tentò di dirigersi verso il divano, ma la datrice di luci aggrottò la fronte e le accennò di muoversi nell’altra direzione, e due dei ragazzi spinsero via il tavolino con le ceramiche. Dorrie disse: — Ho il mio negozio. Pensavo che le facesse piacere inquadrare qualcuno dei miei pezzi mentre mi intervistava…

— Benissimo, sicuro. Volevo dire personalmente. Lei è una donna sana. Ha delle esigenze sessuali. Un po’ più indietro, prego… Sandra riceve un ronzio nell’audio.

Dorrie si trovò in piedi davanti alla poltrona, e le sembrò che non vi fosse altro da fare che sedere. — Naturalmente… — cominciò.

— Lei ha una responsabilità, — disse la Hengstrom. — Che esempio intende dare alla gioventù femminile? Trasformarsi in una vecchia zitella inacidita? Oppure vivere una vita piena, naturale?

— Non so se ci tengo a discutere…

— Mi sono informata sul suo conto, Torraway. E quel che ho scoperto mi piace. Lei appartiene a se stessa… per quanto è possibile per una persona che accetta la farsa ridicola del matrimonio. Lei perché lo fa?

Dorrie esitò. — Roger è veramente una cara persona, — dichiarò.

— E con questo?

— Ecco, voglio dire, mi ha dato sempre conforto e appoggio…

Hagar Hengstrom sospirò. — La solita vecchia psicologia della schiava. Lasciamo perdere. L’altra cosa che mi rende perplessa è il fatto che si sia lasciata invischiare nel programma spaziale. Non pensa che sia una trovata maschilista?

— Ma no. Me l’ha detto il presidente in persona, — disse Dorrie, tentando di segnare qualche punto a proprio favore nell’eventualità di un’altra visita di Dash. — Ha detto che mandare un uomo su Marte era assolutamente indispensabile per il futuro della razza umana. Io gli credo. È nostro dovere…

— Ripeta, — ordinò la Hengstrom.

— Cosa?

— Ripeta quello che ha appena detto. Mandare cosa , su Marte?

— Un uomo. Oh. Capisco ciò che vuol dire.

La Hengstrom annuì tristemente. — Capisce ciò che voglio dire, ma questo non cambia il suo modo di pensare. Perché un uomo? Perché non una persona ? — Lanciò un’occhiata di commiserazione alla fonica, che scosse il capo con fare comprensivo. — Bene, passiamo a qualcosa di più importante. Sa che l’equipaggio del volo per Marte dovrebbe essere formato soltanto da maschi? Cosa ne pensa?

Fu una mattinata terribile, per Dorrie. E non riuscì a fare inquadrare le sue ceramiche.

Quando Sulie Carpenter prese servizio quel pomeriggio, portò a Roger due sorprese: una cassetta dell’intervista, prestata dall’ufficio pubbliche relazioni (leggasi: censura) del progetto, e una chitarra. Prima gli consegnò la cassetta, e lasciò che Roger guardasse l’intervista mentre gli rifaceva il letto e cambiava l’acqua ai fiori.

Quando Roger ebbe finito, Sulie disse allegramente: — Tua moglie si è comportata benissimo, mi pare. Ho incontrato Hagar Hengstrom, una volta. È una donna molto difficile.

— Dorrie stava molto bene, — disse Roger. Era impossibile leggere un’espressione sul volto ricostruito o captarla nei toni piatti della voce, ma le ali di pipistrello svolazzavano irrequiete. — Mi sono sempre piaciuti, quei pantaloni.

Sulie annuì e prese nota mentalmente: le larghe strisce laterali di pizzo lasciavano scoperta una gran quantità di carne. Evidentemente gli steroidi impiantati nell’organismo di Roger facevano l’effetto dovuto. — E adesso ho un’altra cosa, — disse, e aprì l’astuccio della chitarra.

— Vuoi suonare per me.

— No, Roger. Suonerai tu.

— Non so suonare la chitarra, Sulie, — protestò lui.

La ragazza rise. — Ho parlato con Brad, — disse, — e credo che resterai sorpreso. Non sei semplicemente diverso, vedi, Roger. Sei migliore. Le tue dita, per esempio.

— Cos’hanno le mie dita?

— Beh, io suono la chitarra da quando avevo nove anni, e se smetto per un paio di settimane i calli scompaiono e devo ricominciare daccapo. Le tue dita non hanno bisogno dei calli: sono abbastanza dure e salde per premere le corde in modo perfetto, fin dalla prima volta.

— Magnifico, — disse Roger. — Ma non so neppure di cosa stai parlando. Perché devo premerle?

— Così. Senti. — Sulie strimpellò un accordo in sol, poi in re e poi in do.

— Adesso prova tu, — disse. — Devi stare attento a una cosa soltanto: non usare troppa forza. La chitarra è fragile. — E gli porse lo strumento.

Roger passò il pollice sulle corde, come aveva visto fare da lei.

— Benissimo. — Sulie applaudì. — Adesso un sol. L’anulare sul terzo tasto della corda alta del mi… là. L’indice sul secondo tasto del mi. Il medio sul tasto del mi basso. — Gli guidò le mani. — Adesso suona.

Roger strimpellò e alzò la testa verso di lei. — Ehi, — disse. — Mica male.

Sulie sorrise e lo corresse. — Non «mica male». Perfetto. Ora, questo è un do. Indice sul secondo tasto della corda del si, il medio qui, l’anulare lì… Bene. E questo è un accordo in re: indice e medio sulle corde del sol e del mi, là, l’anulare un tasto più in giù sul si… Perfetto, di nuovo. Adesso dammi un sol.

Con sua grande sorpresa, Roger strimpellò un sol perfetto.

La ragazza sorrise ancora: — Visto? Brad aveva ragione. Appena impari un accordo, lo conosci: il 3070 lo ricorda per te. Basta che tu pensi «accordo in sol», e le tue dita lo eseguono. Adesso, — aggiunse, in tono di rammarico burlesco, — sei di circa tre mesi più avanti di dove mi sono ritrovata io la prima volta che ho provato a suonare la chitarra.

— È molto divertente, — disse Roger, provando tutti e tre gli accordi, uno dopo l’altro.

— È solo l’inizio. Adesso strimpella quattro battute: sai, dum, dum, dum, dum. Con un accordo in sol… — Sulie ascoltò, poi approvò con un cenno del capo. — Benissimo. Adesso fai così: sol, sol, sol, sol, sol, sol, sol, sol, la, la, sol, sol, sol, sol, sol, sol… Bene. Adesso ancora, ma questa volta, dopo la, la, fai re, re, re, re, re, re… Benissimo ancora. Adesso eseguili tutti e due, uno dopo l’altro…

Roger suonò, e Sulie cantò con lui: — Kumbaya, my lord. Kumbaya! Kumbaya, my lord. Kumbaya…

— Ehi! — esclamò Roger, felice.

Sulie scosse il capo, fingendosi avvilita. — Sono passati tre minuti da quando hai preso in mano per la prima volta la chitarra, e sei già un discreto accompagnatore. Ecco, ti ho portato un testo sugli accordi e qualche pezzo facile. Quando tornerò, dovresti essere già capace di suonarli tutti, e comincerò a insegnarti il pizzicato, il glissando e il martelletto.

Gli mostrò come si faceva a leggere la tabulatura di ogni accordo e lo lasciò soddisfatto, intento a decifrare le prime sei modulazioni del fa.

Appena uscì dalla stanza di Roger, si fermò per togliersi le lenti a contatto, si soffregò gli occhi e si diresse verso l’ufficio del direttore. La segretaria di Scanyon le fece cenno di passare.

— È soddisfatto della sua chitarra, generale, — riferì Sulie. — Un po’ meno soddisfatto di sua moglie.

Vern Scanyon annuì, e girò una manopola dell’apparecchio che stava sulla scrivania: dal microfono situato nella stanza di Roger arrivò il suono degli accordi per «Kentucky Babe». Scanyon lo spense. — So della chitarra, maggiore Carpenter. E la moglie?

— Temo che lui la ami, — disse Sulie, lentamente. — Va tutto bene, fino a un certo punto. Oltre quel punto, credo che siamo nei guai. Io posso tenerlo su di morale finché resta qui, ma poi se ne andrà per parecchio tempo e… non sono sicura.

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