Le nostre proiezioni di tendenza avevano mostrato che era venuto il momento di far sapere al mondo la verità sul conto di Roger Torraway, verruche e tutto. Perciò era venuto fuori tutto, e ogni schermo televisivo del mondo aveva mostrato Roger sulle punte in una dozzina di perfetti fouettés , tra un primo piano dei morti di denutrizione del Pakistan e gli incendi di Chicago.
Tutto ciò servì a fare di Dorrie una celebrità. La chiamata di Roger l’aveva sconvolta. Non quanto il biglietto con cui Brad le aveva comunicato che non avrebbero più potuto vedersi, non quanto i quarantacinque minuti che il presidente aveva trascorso con lei per farle capire ciò che poteva succedere se si fosse permessa di turbare il suo astronauta prediletto. Certamente non quanto la certezza di essere pedinata, di avere il telefono sotto controllo e la casa sicuramente piena di microfoni nascosti. Ma non aveva saputo come comportarsi con Roger. Temeva che non l’avrebbe saputo mai, e non le dispiaceva affatto pensare che tra pochi giorni egli sarebbe stato lanciato nello spazio: allora, almeno per un anno e mezzo, non sarebbe stata costretta a preoccuparsi dei loro rapporti.
E non le dispiaceva affatto quell’improvviso fulgore pubblicitario.
Adesso che i giornali sapevano tutto, i telecronisti erano accorsi a vederla: e aveva potuto ammirare la propria espressione coraggiosa nel telegiornale delle sei. Fem stava per mandarle qualcuno. Quel qualcuno telefonò per prendere appuntamento. Era sulla sessantina, veterana del Movimento di Liberazione della Donna; e disse con degnazione: — È una cosa che non facciamo mai, intervistare qualcuna solo perché è la moglie di qualcun altro. Ma quelli ci tengono. Non ho potuto rifiutare l’incarico, ma voglio essere sincera con lei, e ci tengo a farle sapere che mi sembra una cosa disgustosa.
— Mi dispiace, — fece Dorrie in tono di scusa. — Vuole che disdica l’intervista?
— Oh, no, — disse la donna, parlando come se fosse colpa di Dorrie, — non è colpa sua, ma lo ritengo un tradimento nei confronti di tutto ciò che Fem rappresenta. Non importa. Verrò a casa sua. Faremo un servizio di quindici minuti per l’edizione in videocassetta, e io scriverò un pezzo per l’edizione stampata. Se può…
— Io… — cominciò Dorrie.
— … cerchi di parlare di se stessa, anziché di lui. La sua vita. I suoi interessi. Il suo…
— Mi dispiace, ma sinceramente preferirei…
— … pensiero sul programma spaziale e così via. Dash dice che si tratta di un obiettivo americano fondamentale e che da questo dipende l’avvenire del mondo. Lei che ne pensa? Non’voglio che mi risponda adesso, voglio…
— Non voglio l’intervista in casa mia, — disse Dorrie, interrompendola, senza attendere una pausa nella conversazione.
— … che ci pensi sopra, e mi risponda davanti alla telecamera. Non le va bene a casa sua? No, non è possibile. Saremo lì tra un’ora.
Dorrie si ritrovò a parlare con un puntolino luminoso che si spegneva sullo schermo. — Puttana, — disse, quasi distrattamente. Non le dispiaceva che l’intervista si svolgesse in casa sua. Le dispiaceva di non avere una possibilità di scelta. Questo le bruciava molto. Ma non poteva farci niente, a meno di andarsene prima che arrivasse l’inviata di Fem.
Dorrie Torraway, anzi Dee Mintz, teneva molto alle sue possibilità di scelta. Una delle cose che l’avevano attirata inizialmente verso Roger, a parte il fascino del programma spaziale, e la sicurezza e il danaro che ne costituivano il corollario — e a parte lo stesso Roger, con quella sua aria simpatica da stallone — era il fatto che lui era sempre disposto ad ascoltare i suoi desideri. Gli altri uomini pensavano soprattutto a quel che volevano loro, e questo cambiava da un uomo all’altro, ma non cambiava nell’ambito dei rapporti con un dato individuo. Harold voleva sempre ballare e andare alle feste, Jim voleva sempre fare all’amore, Everett voleva fare all’amore e andare alle feste, Tommy voleva un impegno politico, Joe voleva premure materne. Roger, invece, voleva esplorare il mondo insieme a lei, e sembrava disposto a esplorarne le parti che interessavano a lei non meno delle parti che erano importanti per lui.
Non si era mai pentita di averlo sposato.
Era rimasta sola molte volte. Cinquantaquattro giorni mentre Roger era nella Stazione Spaziale Tre. Tante altre missioni più brevi. Due anni in giro per il mondo, a lavorare con l’intero sistema delle stazioni di controllo a terra, da Aquisgrana allo Zaire, senza avere una vera casa da nessuna parte. Dorrie dopo un po’ si era stancata, ed era tornata nell’appartamento di Tonka. Ma non le era dispiaciuto. Forse era dispiaciuto a Roger: quel problema non le era mai passato per la mente. Comunque, si erano visti abbastanza di frequente. Roger arrivava a casa ogni mese od ogni due mesi, e lei si dava da fare. C’era il negozio: lo aveva aperto mentre Roger era in Islanda, con l’assegno da cinquemila dollari che lui le aveva inviato in dono per il suo compleanno. C’erano le sue amiche. C’erano, di tanto in tanto, degli uomini.
Tutto ciò non era servito a riempire la sua vita, ma Dorrie non lo pretendeva neppure. Si era abituata a star sola. Era figlia unica, e sua madre non aveva mai potuto soffrire i vicini, perciò non aveva mai avuto molte amicizie. Del resto, anche i vicini non potevano soffrire sua madre, perché sua madre era una drogata, e quasi tutti i pomeriggi era come se non ci fosse, il che complicava l’esistenza di Dorrie. Ma a lei non dispiaceva: non sapeva che esistessero altri modi di vivere.
A trentun anni, Dorrie era sana, graziosa, capace di affrontare il mondo, così come era stata in passato e come sarebbe stata in futuro. Si considerava felice. Quella diagnosi non scaturiva da un tripudio di gioia interiore. Derivava dalla constatazione obiettiva che, quando voleva qualcosa, l’otteneva sempre: e quale altra definizione della felicità poteva essere più valida?
Approfittò del tempo che le restava prima dell’arrivo di Ms. Hagar Hengstrom e dei suoi collaboratori di Fem per disporre una collezione di ceramiche del suo negozio sul tavolino, davanti al divano su cui intendeva sedersi. I minuti che le restarono li dedicò al compito meno importante di spazzolarsi i capelli, controllare il trucco e indossare il suo abito nuovo con i pantaloni ornati di pizzo.
Quando suonò il campanello, Dorrie era pronta.
Ms. Hagar Hengstrom le strinse vigorosamente la mano ed entrò, con i capelli di un azzurro vivo e un sigaro nero. La seguirono la datrice di luci, la fonica, l’addetta alla telecamera e i ragazzi addetti all’ambientazione. — La stanza è piccola, — borbottò, scrutando con disprezzo l’arredamento. — Torraway si siederà là. Muovetevi.
I ragazzi si precipitarono a spostare una poltrona, dalla finestra all’angolo occupato da un mobiletto, che trascinarono al centro della stanza. — Aspetti un momento, — fece Dorrie. — Pensavo di sedermi qui sul divano…
— Allora, come va con l’esposimetro? — domandò la Hengstrom. — Sally, attacca con la telecamera. Non si sa mai quel che possiamo utilizzare come sfondo per i titoli di testa.
— Dico sul serio, — fece Dorrie.
La Hengstrom la guardò. La voce non si era alzata troppo, ma il tono era minaccioso. Scrollò le spalle. — Mi lasci fare, — propose. — E se poi non le piacerà ne riparleremo. Mi racconti tutto, eh?
— Raccontare tutto cosa? — La ragazza pallida, notò Dorrie, puntava su di lei la telecamera a mano: e questo l’irritava. La datrice di luci aveva trovato una presa a muro e reggeva dei riflettori con entrambe le mani, spostandoli delicatamente per cancellare le ombre che si formavano appena Dorrie si muoveva.
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