Frederik Pohl - Uomo più

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Questo nuovo romanzo di Frederik Pohl ci presenta il primo tentativo di colonizzazione del pianeta Marte: non il Marte sognato dalla fantascienza di cinquant’anni fa, ma il Marte che oggi conosciamo attraverso i risultati trasmessi dalle sonde spaziali.
Il protagonista della colonizzazione è Uomo Più: l’uomo più gli ausili che gli possono offrire i computer, e il protagonista del romanzo è il primo di questi uomini. Macchine sofisticate collegate al suo corpo hanno sostituito i suoi organi con altri organi artificiali, ed egli è ora adatto a vivere nell’atmosfera rarefatta di Marte, a trarre dal sole l’energia che gli occorre. Ma i suoi ex simili, le persone umane normali, non lo riconoscono più come uno di loro, e Marte, considerato come un’avventura e un episodio, si rivela il suo esilio e la sua casa.
Nominato per i premi Hugo, Campbell e Locus in 1977.

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— Diavolo! — insorse Brad. — Il corpo è tuo, impara a servirtene. — Poi, in tono di scusa: — Come hai imparato a bloccare il senso della vista. Prova a sperimentare, fino a quando trovi il sistema. E adesso fai attenzione: sto per trasmetterti una partita di Bach.

In un modo o nell’altro, il tempo passò.

Ma non passò facilmente né rapidamente. Vi erano lunghi periodi in cui il senso alterato del tempo trascinava all’infinito la noia anziché abbreviarla, e momenti in cui, contro la sua volontà, Roger si accorgeva di pensare ancora a Dorrie. L’euforia che gli aveva comunicato la visita di Dash, le premure e l’affetto di Sulie Carpenter… erano cose bellissime; ma non duravano in eterno. Dorrie era una realtà nelle sue fantasticherie, e quando la sua mente era abbastanza vuota per vagabondare, ritornava a Dorrie. Dorrie e i loro primi anni spensierati. Dorrie, e la terribile certezza di non essere più un uomo, di non poter soddisfare le sue esigenze sessuali. Dorrie e Brad…

La voce di Kathleen Doughty scattò: — Non so cosa diavolo tu stia combinando, Roger, ma manda a catafascio tutti i tuoi indici vitali. Piantala.

— Sta bene, — borbottò lui. Scacciò Dorrie dalla sua mente. Pensò alla voce di Kathleen, piena di rancore e d’affetto, a ciò che aveva detto il presidente, a Sulie Carpenter. Si mise tranquillo.

Per ricompensarlo gli mostrarono la diapositiva di un mazzo di violette, a colori.

CAPITOLO DECIMO

GLI SCAMBIETTI DELL’UOMO PIPISTRELLO

Improvvisamente, sorprendentemente, mancavano soltanto nove giorni.

Quando uscì dal condominio dei religiosi, padre Kayman rabbrividì per il freddo, mentre attendeva che Brad passasse a prenderlo per condurlo alla sede del progetto. La scarsità di carburante si era aggravata parecchio nelle ultime due settimane, a causa dei combattimenti in Medio Oriente e dei Combattenti per la Libertà scozzesi che avevano fatto saltare gli oleodotti del Mare del Nord. Il progetto aveva la precedenza per quanto era necessario, anche se alcuni silos missilistici non avevano abbastanza carburante per lanciare i loro razzi; ma tutti i membri del personale erano stati esortati a spegnere le luci, a mettersi d’accordo per andare in ufficio in macchina a gruppi, ad abbassare i termostati nelle rispettive case e a guardare meno la televisione. Una nevicata precoce aveva imbiancato le praterie dell’Oklahoma, e davanti al condominio un seminarista insonnolito spazzava via la neve dai marciapiedi. Non era molta e, pensò Kayman, non era neppure molto bella. Era uno scherzo della sua immaginazione, oppure era veramente grigiastra? Possibile che le ceneri delle foreste in fiamme della California e dell’Oregon avessero contaminato la neve a duemilacinquecento chilometri di distanza?

Brad suonò il claxon, e Kayman sussultò. — Scusami, — disse, salendo a bordo e chiudendo la portiera. — Senti, perché la volta prossima non prendiamo la mia auto? Consuma molto meno carburante della tua macchina.

Brad scrollò le spalle, incupito, e guardò nello specchietto retrovisore. Un altro hovercar, un modello sportivo, leggero, stava girando l’angolo, dietro di loro. — Tanto, guido per due egualmente, — disse il medico. — È lo stesso che mi pedinava martedì. Sono diventati incauti. Oppure vogliono farmi capire bene che mi tengono d’occhio.

Kayman si girò a guardare. L’altra macchina non si preoccupava certo di passare inosservata. — Sai chi è, Brad?

— Perché, hai qualche dubbio?

Kayman non rispose. In effetti, dubbi non ce n’erano. Il presidente aveva detto chiaro a Brad che in nessun caso doveva ronzare intorno alla moglie del mostro: glielo aveva detto nel corso di un colloquio durato mezz’ora e di cui Brad ricordava nitidamente ogni doloroso secondo. Il pedinamento era incominciato subito dopo, per far sì che Brad non lo dimenticasse.

Ma si trattava di un argomento che Kayman preferiva non discutere con Brad. Accese la radio e cercò un notiziario. Ascoltarono per alcuni minuti notizie censurate ma egualmente sconvolgenti di disastri vari, fino a quando Brad, senza dire una parola, allungò la mano e spense l’apparecchio. Poi procedettero in silenzio, sotto il cielo plumbeo, finché raggiunsero il gran cubo bianco del progetto, solo nella prateria desolata.

Là dentro non c’era nulla di grigio; le luci erano forti e brillanti; le facce erano stanche, talvolta preoccupate, ma erano vive. Lì dentro, almeno, pensò Kayman, c’era un’atmosfera di attività e di finalità. Il progetto procedeva secondo la tabella oraria.

E tra nove giorni l’astronave marziana sarebbe stata lanciata, e lui stesso sarebbe stato a bordo.

Kayman non aveva paura. Aveva orientato la propria vita in attesa di quel momento, sin dai primi giorni trascorsi in seminario, quando aveva compreso di poter servire il suo Dio anche senza salire su un pulpito, ed era stato incoraggiato dal padre superiore a coltivare il suo interesse non solo teologico ma anche astrofisico per il cielo. Comunque, era un pensiero opprimente.

Non si sentiva pronto. E sentiva che il mondo non era pronto per quell’impresa. Sembrava tutto così bizzarramente improvvisato, nonostante le eternità di tempo che avevano dedicato a quel lavoro, tutti, compreso lui. Non era ancora stata fatta nemmeno la scelta definitiva dei membri dell’equipaggio. Roger sarebbe andato: era la ragion d’essere del progetto, ovviamente. Sarebbe andato anche Kayman: questo era già stato stabilito. Ma i due piloti erano ancora provvisori. Kayman li aveva conosciuti entrambi e li aveva trovati simpatici. Erano tra i migliori della NASA, e uno aveva partecipato insieme a Roger ad una missione con una navetta spaziale, otto anni prima. Ma c’erano altri quindici che figuravano nell’elenco dei candidati… Kayman non conosceva neppure tutti i nomi: sapeva solo che erano parecchi. Vern Scanyon e il direttore generale della NASA erano andati in volo a discuterne con il presidente in persona, pregandolo di confermare le loro scelte; ma Dash, per motivi che lui solo conosceva, si era riservato il diritto alla decisione finale, e non aveva ancora fatto conoscere le sue intenzioni.

L’unica cosa che sembrava perfettamente pronta all’avventura era proprio l’anello della catena che un tempo era parso più debole: lo stesso Roger.

L’addestramento era andato magnificamente. Roger ormai si muoveva alla perfezione per tutto il palazzo del progetto: andava dalla stanza che considerava ancora «casa sua» alla vasca marziana, agli impianti per le prove, e dovunque volesse. Tutti i membri del progetto si erano abituati a vedere quell’essere alto, dalle ali nere, che procedeva a grandi balzi per i corridoi; gli enormi occhi sfaccettati riconoscevano un viso noto e la voce inespressiva lanciava un gaio saluto. Durante l’ultima settimana, Roger era stato requisito in esclusiva da Kathleen Doughty. Il suo sensorio appariva perfettamente controllato: era venuto il momento di imparare a sfruttare tutte le risorse della muscolatura. Perciò Kathleen aveva fatto venire un cieco, un ballerino classico e un ex paraplegico, e via via che Roger ampliava i propri orizzonti costoro cominciarono a educarlo. Il ballerino classico non era più un divo, ma lo era stato, e da ragazzino aveva studiato con Nureyev e Dolin. Il cieco non era più cieco. Non aveva occhi, ma il suo apparato ottico era stato sostituito da sensori molto simili a quelli di Roger; e insieme i due si scambiavano giudizi sulle sfumature di colore più sottili e sui metodi per manipolare i parametri della loro vista. Il paraplegico, che ora si muoveva grazie ad arti motorizzati antesignani di quelli di Roger, aveva impiegato un anno per imparare ad usarli, e lui e Roger prendevano insieme lezioni di ballo.

Non erano sempre insieme fisicamente. L’ex paraplegico, che si chiamava Alfred, era tuttora molto più umano di Roger Torraway, e tra le varie caratteristiche umane presentava anche l’esigenza di respirare aria. Quando Kayman e Brad entrarono nella sala comandi della vasca marziana, Alfred eseguiva scambietti al di qua della grande vetrata doppia e Roger, entro la vasca quasi completamente priva d’aria, ripeteva gli stessi movimenti. Kathleen Doughty contava le cadenze, e gli altoparlanti trasmettevano il valzer in la maggiore di Les Sylphides. Vern Scanyon stava seduto accanto a una parete, a cavalcioni su una sedia, con le braccia conserte sulla spalliera e il mento appoggiato sulle mani. Brad lo raggiunse subito, e i due cominciarono a parlare sottovoce.

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