Tutto andava come avevano predetto i grafici. Noi ne eravamo al corrente; e continuavamo il nostro lavoro. Quando una infermiera o un tecnico trovava il tempo di preoccuparsi, veniva rassicurato dagli ordini presidenziali. Su tutti i tabelloni dei giornali murali e in quasi tutti gli uffici e i laboratori, faceva bella mostra di sé una frase di Dash:
Voi pensate a Roger Torraway, e al resto del mondo penserò io.
Fitz-James Deshatine
Noi non avevamo bisogno di venire rassicurati: sapevamo quanto fosse importante quel lavoro. La sopravvivenza della nostra razza dipendeva dalla sua riuscita. Di fronte a questo, nient’altro aveva importanza.
Roger si svegliò nell’oscurità assoluta.
Aveva sognato, e per un momento il sogno e la realtà si mescolarono bizzarramente. Aveva sognato qualcosa che era avvenuto molto tempo prima, quando lui e Dorrie e Brad erano andati in macchina fino al lago Texoma, insieme ad alcuni amici proprie tari di una barca a vela: e la sera avevano cantato, accompagnati dalla chitarra di Brad, mentre una luna enorme sorgeva sull’acqua. Gli pareva di udire ancora la voce di Brad… ma ascoltò più attentamente, mentre il suo cervello si liberava dalle nebbie del sonno, e non udì nulla.
Non c’era nulla. Questo era strano. Nessun suono, neppure il ronzio ed i ticchettii dei monitor telemetrici lungo la parete, neppure un brusio dal corridoio. Per quanto si sforzasse, con tutta la sensibilità potenziata delle orec.chie nuove, non captò il minimo suono. E non c’era neppure luce. Di nessun colore, in nessun luogo, a parte alcuni riflessi rossi, molto fiochi, irradiati dal suo stesso corpo, e un bagliore altrettanto smorzato che proveniva dallo zoccolo della stanza.
Si mosse, irrequieto, e scoprì di essere legato al letto.
Per un momento, il terrore gli dilagò nella mente: prigioniero, indifeso, solo. Lo avevano spento? Avevano disattivato di proposito i suoi sensi? Che cosa era accaduto?
Un filo di voce, vicino al suo orecchio: — Roger? Sono Brad. Gli indicatori mostrano che sei sveglio.
Il sollievo fu soverchiante. — Sì, — riuscì a dire. — Cosa succede?
— Ti abbiamo creato un ambiente a privazione sensoriale. A parte la mia voce, riesci a udire qualcosa?
— Neppure un suono, — rispose Roger. — Niente di niente.
— E la luce?
Roger riferì che riusciva a scorgere solo la fioca luminosità del calore. — È tutto.
— Benissimo, — disse Brad. — Dunque ecco di che si tratta, Roger. Ti faremo lavorare con il tuo nuovo sensorio, un po’ per volta. Suoni semplici. Semplici disegni. Abbiamo sistemato un proiettore di diapositive attraverso la parete, sopra la testata del tuo letto, e uno schermo accanto alla porta: tu non lo puoi vedere, naturalmente, ma c’è. Ora… aspetta un momento. Kathleeen ti vuol parlare.
Lievi suoni d’attrito, fruscii, e poi la voce di Kathleen Doughty. — Roger, questa testa di cavolo di Brad ha dimenticato una cosa importante. La privazione sensoriale è pericolosa, lo sai.
— L’ho sentito dire, — ammise Roger.
— Secondo gli esperti, la cosa peggiore è il sentirsi impotenti di farla cessare. Perciò, appena cominci a sentirti fuori posto, non hai che da parlare: qui ci sarà sempre uno di noi, e risponderemo. Ci sarà Brad, o Sulie Carpenter, o Clara, oppure ci sarò io.
— Adesso ci siete tutti?
— Cristo, sì… più Don Kayman e il generale Scanyon e, cribbio, metà dello staff. Non ti mancherà certo la compagnia, Roger, questo te lo assicuro. E adesso dimmi, la mia voce ti dà fastidio?
Roger rifletté. — No, direi. Quando parli, sembri una porta che cigola, — rispose.
— Molto male.
— Non credo. Parli quasi sempre allo stesso modo, Kathleen.
La Doughty ridacchiò. — Beh, tanto fra un attimo smetterò di parlare. E la voce di Brad?
— Non ho notato niente. O almeno, non ne sono sicuro. Stavo sognando, e per un momento mi è parso che cantasse Aura Lee , accompagnandosi con la chitarra.
Brad intervenne. — Questo è interessante , Roger! E adesso?
— No, adesso parli normalmente.
— Bene, le indicazioni sono positive. Tutto bene. Ne riparleremo dopo. Ora, ti daremo puri e semplici input visuali. Come ti ha detto Kathleen, tu puoi parlare con chiunque di noi quando vorrai, e noi ti risponderemo. Ma per un po’ noi non parleremo molto. Lascia che i circuiti visivi si adattino, prima che creiamo una confusione con vista e udito simultanei, chiaro?
— Fate pure, — rispose Roger.
Non vi fu risposta, ma dopo un momento un pallido punto luminoso apparve sulla parete di fondo.
Non era brillante. Con i suoi occhi naturali, immaginò Roger, non sarebbe stato neppure in grado di vederlo; ma adesso poteva distinguerlo chiaramente, e persino nell’aria filtrata e purificata della stanza d’ospedale, riusciva a scorgere il fioco raggio di luce che andava dal proiettore alla parete, al di sopra della sua testa.
Per molto tempo non accadde altro.
Roger attese, con tutta la pazienza di cui era capace.
Trascorse altro tempo.
Finalmente disse: — Bene, lo vedo. È un punto. È da parecchio che lo osservo, ed è sempre un punto. Ho notato, — disse, girando la testa, — che riflette abbastanza luce da permettermi di vedere un po’ il resto della stanza, ma questo è tutto.
La voce di Brad echeggiò come un tuono. — Okay, Roger, aspetta e ti daremo qualcosa d’altro.
— Ehi! — esclamò Roger. — Non così forte, okay?
— Non parlavo più forte di prima, — obiettò Brad. E infatti la sua voce si era ridotta a proporzioni normali.
— Okay, okay, — borbottò Roger. Cominciava ad annoiarsi. Dopo un momento apparve un altro punto luminoso, a pochi centimetri dal primo. Rimasero così a lungo, e poi una linea luminosa apparve di colpo tra l’uno e l’altro.
— È molto noioso, — protestò Roger.
— Deve esserlo. — Questa volta era la voce di Clara Bly.
— Salve, — la salutò Roger. — Senti. Adesso vedo bene, con tutta la luce che mi date. Cosa sono tutti i fili che mi avete appiccicato addosso?
Intervenne Brad: — I tuoi sistemi telemetrici, Roger. È per questo che abbiamo dovuto legarti, perché non ti girassi e non imbrogliassi i fili. È tutto su telecomando, adesso, sai. Abbiamo dovuto portar via quasi tutto dalla tua stanza.
— Me ne sono accorto. Va bene, continuate pure.
Ma era tedioso, e tedioso rimase. Non era quel tipo di cose ideate per tener sveglia la mente. Potevano essere importanti, ma erano anche noiose. Dopo una successione interminabile di semplici figure geometriche luminose, a intensità ridotta perché vi fossero meno riflessi per illuminare il resto della stanza, cominciarono a trasmettergli dei suoni: ticchettii, i bip di un oscillatore, una campanella, un sibilo.
Nell’altra stanza, i turni si succedevano. Si fermavano soltanto quando la telemetria indicava che Roger aveva bisogno di sonno, di cibo o della padella. Non erano esigenze frequenti. Roger cominciò a capire chi era di turno, grazie a segni piccolissimi: la sfumatura lievemente beffarda che si sentiva nella voce di Brad solo quando era presente Kathleen Doughty, il trillo più lento, quasi affettuoso dei nastri sonori quando era Sulie Carpenter a controllare le reazioni. Roger scoprì che il suo senso del tempo non era identico a quello degli altri, o a quello della «realtà», qualunque cosa fosse la «realtà». — Era prevedibile, Rog, — disse la voce stanca di Brad, quando glielo disse. — Se ti impegni, scoprirai che puoi controllarlo con la volontà. Puoi scandire i secondi come un metronomo, se vuoi. Oppure muoverti più rapidamente o più rapidamente, a seconda delle necessità.
— E come posso fare? — domandò Roger.
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